Voci solidali dalle carceri
Anche noi siamo umani
La pandemia che ancora grava sul pianeta rende gravoso anche il lavoro dei volontari delle carceri, del quale qualcosa conosco attraverso il mio ruolo di membro della giuria del Premio Castelli, un concorso «letterario» per detenuti che ha dietro la Società di San Vincenzo de’ Paoli. Carlo Castelli (1924-1998), vincenziano operoso, è stato un pioniere del volontariato carcerario. L’intralcio pandemico ai volontari del carcere sta raddoppiando, da oltre un anno e mezzo, l’isolamento dei detenuti.
La giornata conclusiva del concorso – con la consegna dei premi e un convegno a essi collegato – viene in ottobre e si svolge ogni anno in un carcere diverso. Con le 12 prime edizioni del premio siamo stati a Palermo, Poggioreale, Cagliari, Reggio Calabria, Forlì, Mantova, Bari, Bollate, Augusta, Padova, Nisida, Matera (cf. Regno-att. 18,2020,583s). L’anno scorso la facemmo da remoto, quest’anno i vaccini ci permettono di tenerla nel carcere di Bergamo.
Noi giurati – siamo 10 – teniamo a questo appuntamento intra moenia, che costituisce il momento di presa diretta su quel pianeta quasi inaccessibile. Ma la nostra vera esperienza del carcere è nella lettura dei «lavori» che i detenuti inviano alla giuria e che in queste due ultime edizioni costituivano un’appassionata evocazione della pandemia dal chiuso delle quattro mura.
Contagio del COVID-19,
contagio della solidarietà
Il richiamo – nel tema assegnato a questa edizione – al «contagio della solidarietà che vince ogni pandemia e ogni barriera» ha provocato i partecipanti al concorso a segnalare similitudini e difformità nella reazione al COVID-19 da parte del popolo delle carceri rispetto all’insieme della società, con primaria attenzione ai sentimenti e alle iniziative solidali che la sfida pandemica ha suscitato tra i detenuti e verso il mondo esterno.
Diversi tra i lavori pervenuti hanno attestato un ruolo inaspettatamente positivo della pandemia nella costruzione di rapporti di solidarietà, o quantomeno nella manifestazione della verace umanità che alberga in ogni creatura umana e dunque anche nei detenuti, fino all’affermazione solo apparentemente paradossale che il carcere potrebbe costituire un luogo dove Dio è più «vicino» che altrove.
La giuria assegna tre premi in denaro e segnala con la pubblicazione in volume altri dieci lavori meritevoli. L’autrice di uno dei testi segnalati con la pubblicazione – Il mondo contro il COVID – azzarda l’opinione che «questa pandemia abbia fatto sì che tra le persone ci sia molta più solidarietà», almeno tra quelle detenute, perché il mondo esterno, nello stravolgimento pandemico, le appare «nuovo, sconosciuto, spaventoso e pericoloso». «Al di là di queste mura – conclude – che cosa troverò quando uscirò?».
Un altro lavoro premiato con la pubblicazione – Noi portatori sani di solidarietà – segnala la capacità dei detenuti di farsi attivi nella solidarietà, sia tra loro sia verso l’umanità circostante, perché «abbiamo una nostra identità: stiamo pagando per degli errori, non siamo errori». La conclusione è di incoraggiamento a vedere il positivo segnalato dalla risposta alla pandemia: «La solidarietà può salvarci, dentro e fuori».
«Voi e noi abbiamo lacrime sorelle»
Anche l’autore di un terzo testo pubblicato – Quest’oggi nel carcere di La Spezia – rivendica la pari dignità del popolo delle carceri: «Tanti detenuti si sono adoperati per sentirsi utili in questa emergenza» perché «non c’è questo muro così impenetrabile, anzi, il muro non c’è tra il mondo di fuori e il mondo di dentro».
Il sentimento della pari dignità anima anche il componimento poetico Amoris virus premiato con la pubblicazione: «Voi e noi abbiam lacrime sorelle / ed angosce ormai in comune / e così un giorno, a nuov’aurora, / cammineremo ancora insieme / senza giudizi, senza paure / lungo i sentieri dell’unità / condivisori d’umana specie».
Nei lavori pervenuti risulta ampiamente attestata la percezione della comune condizione d’inermità di tutti gli umani di fronte a questa sconosciuta emergenza. Viene insistentemente narrato, come accomunante il mondo delle carceri e quello esterno, sia lo spaesamento provocato dalle tante teorie sul virus omicida e dalle false notizie che lo riguardano, sia l’ansia per gli effetti del vaccino. Ma che l’emergenza pandemica e la comune paura abbiano stimolato sorprendenti iniziative di solidarietà da parte dei detenuti verso l’esterno è certamente da porre tra i segni di speranza venuti da questa stagione tribolata.
A quelle iniziative così accenna il lavoro che ha avuto il primo premio, Andrà tutto bene: «Anche dalle carceri, dagli “ultimi”, arrivavano segnali di solidarietà, chi con raccolte alimentari, chi con laboratori per la fabbricazione di mascherine, tutti noi ci sentivamo vicini a coloro che, “detenuti” anch’essi ma ingiustamente, si trovavano a vivere da incolpevoli l’esperienza degli arresti domiciliari. Se la pandemia è stata capace di scuotere le nostre coscienze, le coscienze di coloro che per antonomasia una coscienza non ce l’hanno, cosa poteva fare fuori di qui? Almeno in questo il virus aveva fallito: si era costretti alla distanza fisica ma mai come in quei giorni ci sentivamo vicini, uniti contro il nemico comune».
«Nell’oblio generale che patiamo dal mondo»
Tra le attività dei carcerati in aiuto all’umanità esterna, diversi concorrenti segnalano quella dello scrivere lettere «per aiutare a sconfiggere la solitudine di tante persone sole», come scrive uno di loro. Ne parla in particolare la concorrente che ottiene il terzo premio con il testo Quando le parole sono petali d’amore: «Altro non ho potuto fare perché oltre le sbarre fisicamente non posso andare ma le parole possono avere le ali e toccare e ammorbidire anche gli angoli più ostici dell’animo umano». La pandemia dunque ci ha fatto conoscere una nuova attualità delle lettere dal carcere.
Che poi la sfida pandemica abbia incoraggiato diversi detenuti partecipanti al concorso, come ho segnalato sopra, alla rivendicazione della pari dignità, anche questo è un buon segno, tanto più apprezzabile quanto più viva risulta, tra gli stessi concorrenti, la percezione d’essere ancora visti come reietti e scarti dell’umano, «nell’oblio generale che patiamo dal mondo», come abbiamo letto in uno dei testi.
Una percezione acuita – osserva un altro concorrente – dalla domanda «come sia il carcere» che il detenuto si sente porre quand’è in uscita premio: «Solo chi è stato dentro può comprendere l’umiliazione che suscita questa condizione nell’essere umano». Ma non è necessaria quella domanda per riaprire una ferita che è tenuta viva dallo stesso suono delle parole carcere, detenuto, carcerato, scarcerazione.
Forse proprio in carcere Dio è più vicino
L’autore di uno dei lavori premiati con la pubblicazione – Il mio amico Antenor – si dilunga su questa ferita delle parole: «Detenuto è un termine gentile rispetto a carcerato, o altri ancora che mi vengono in mente, ma allo stesso tempo terribile, se ci pensate. Detenuto, bloccato, trattenuto, nello spazio ma anche nel tempo, perché la nostra vita si ferma, mentre il mondo va avanti».
Insiste sulla violenza escludente delle parole anche il lavoro che ha avuto il secondo premio (Il riscatto): «Carcere, già solo il nome fa paura e orrore, sembra quasi non appartenere al lessico comune, forse perché, secondo tanti, questo non è un posto “normale”, perché ci vivono i cattivi, i mostri, i delinquenti, i perdenti. E se non fosse così? Se [anche qui] ci fosse, nonostante tutto, un mondo diverso e una vita pulsante?».
Questo stesso concorrente arriva a scrivere parole degne di memoria, sempre ragionando di che cosa il carcere sia e di che cosa potrebbe essere se nell’intero teatro degli umani prevalesse l’idea solidale: «Chissà, probabilmente, Dio è più vicino di quanto pensiamo, proprio qui. In questo piccolo mondo di errori e sofferenza noi non siamo diavoli. Piuttosto angeli caduti e feriti che cercano di rialzarsi».
Che Dio nel carcere sia più vicino di quanto pensiamo è anche un insegnamento del Vangelo di Matteo, caro a ogni volontario, vincenziano o d’altra ispirazione – insegnamento contenuto nella parabola del giudizio dove Gesù afferma: «Ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (25,36). Parole che ci invitano a considerare la doppia vicinanza del Cristo all’umanità dei reclusi: egli è presente sia nei visitatori dei carcerati, sia in coloro che ricevono la visita.
Disponibilità all’ascolto
da parte dell’umanità tribolata
Sulla vicinanza del Signore all’umanità tribolata delle carceri – vicinanza di uno che fu catturato, legato, processato, condannato – ho interpellato un vescovo amico dei detenuti: Michele Pennisi, di Monreale. «A Piazza Armerina – mi ha detto – avevo tre carceri e incontravo i carcerati alcune volte l’anno. Sia io come i cappellani abbiamo trovato in alcuni ospiti di queste case molta disponibilità ad ascoltare la parola di Dio e a farsi interrogare da essa più di quanto ne venissimo incontrando nei comuni fedeli. In collaborazione con il Rinnovamento nello Spirito potemmo anche avviare un progetto per il recupero dei carcerati».
A Monreale non ci sono carceri ma Pennisi ha visitato e celebrato più volte nelle carceri della vicina Palermo e ha vissuto anche una singolare esperienza di risposta dei detenuti al suo apostolato: «Un gruppo di carcerati a fine pena hanno voluto trascorrere una giornata con me in arcivescovado.
Dopo la visita del duomo e lo scambio di esperienze, abbiamo pranzato con i loro familiari». Anche in questa circostanza il vescovo ha riscontrato nei suoi ospiti una buona esperienza della vicinanza del «Padre dei poveri» agli ultimi tra gli uomini che sono appunto i carcerati.
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