Cielo e terra
Cosa sono e perché te ne ricordi?
Quando succede un incidente o una disgrazia accorre gente; alcuni lo fanno per prestare soccorso, altri per guardare. Non bisogna essere grandi studiosi per cogliere i meccanismi psicologici che inducono certuni a sostare e altri a deprecare quel tipo di presenza. Se si tratta di un evento particolarmente tragico il pellegrinaggio e le critiche si prolungheranno nei giorni successivi. Le cose stanno invece molto diversamente se la catastrofe è remota; in questo caso morti e feriti cessano di avere rilevanza.
Secondo le statistiche, Pompei è il terzo luogo turistico più visitato d’Italia. Nel XXI secolo una devastazione immane che sommerse di cenere e lapilli intere città pare non suscitare più alcuna riflessione sulle forze distruttrici della natura. Quando si parla di crolli si pensa all’incuria con cui sono conservate le strutture emerse dagli scavi. Eppure vari edifici dissepolti appaiono in via di costruzione; l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. era stata infatti preceduta 17 anni prima da un terremoto. A differenza del crollo di muri o case (cf. quella dei gladiatori), scosse telluriche e lava non sono imputabili all’incuria umana.
Quando Giacomo Leopardi scrisse La Ginestra o il fiore del deserto si trovava nella villa Ferrigni, alle pendici del Vesuvio dove si era rifugiato nel 1836 per sfuggire al colera che imperversava in città (il poeta sarebbe morto il 14 giugno dell’anno successivo). A quel tempo gli scavi erano già cominciati (iniziarono verso la metà del Settecento per volontà di Carlo III di Borbone), il turismo di massa era invece ancora lungi da venire.
L’odoroso fiore, spuntato dal terreno lavico ed esposto più di tutti al bruciante ardore di possibili future eruzioni, fece insorgere in Leopardi ampie e poetiche riflessioni sulla natura, sull’uomo e sul cosmo. Il componimento contiene però anche considerazioni più puntuali, comprese quelle riferite a Pompei, uscita dalla trascorsa dimenticanza a motivo di scavi mossi o da avarizia o da pietà. Mentre sostavano tra mozzi colonnati, i visitatori di allora scorgevano da lontano il minaccioso Vesuvio.
Oggi l’antropizzazione delle pendici del vulcano ha raggiunto livelli senza precedenti. Forse ciò può far insorgere, periodicamente, qualche remota preoccupazione, sentimento che sembra invece estraneo ai visitatori degli scavi pompeiani; nella memoria turistica gli affreschi erotici restano più impressi che i moniti catastrofici.
I passi più celebri della Ginestra sono, come si sa, altri. Oltre a quelli che si fanno beffe delle «magnifiche sorti e progressive», primeggiano i versi secondo cui fu l’orrore suscitato dall’«empia natura» a indurre «i mortali» a stringersi «in social catena». Cosa vi è di più assurdo che farsi guerra tra amici mentre si combatte contro un nemico comune? L’invito a essere solidali nasce per gli uomini a motivo dei pericoli originati dalla natura. Nei primi decenni dell’Ottocento si era ancora agli antipodi della posizione (fulcro della Laudato si’ di papa Francesco) in base alla quale l’umana solidarietà è un indispensabile corollario del tutelare i ritmi naturali.
Un’ecologia ante litteram
La vittima più celebre dell’eruzione del Vesuvio fu Plinio il Vecchio. Nella sua Naturalis historia si trova un po’ di tutto, compresi riferimenti alla natura matrigna (natura noverca) che espone i viventi a continui pericoli, a cominciare dalla stessa nascita per proseguire con quelli derivati dalle profondità del suolo, dalle acque, dai venti, dai vulcani (cf. NH, VI, 175). Eppure in quel libro ci sono anche forti denunce delle violenze compiute dagli uomini sulla madre terra di cui squarciano le viscere (cf. NH XXXIII,1-12), sulle acque da loro inquinate e sull’aria divenuta irrespirabile (cf. NH XVIII, 3-4).
Confrontate con le preoccupazioni ecologiche odierne, quelle del primo secolo appaiono risibili; tuttavia le regole del gioco erano già state individuate fin da allora: bisogna non offendere una natura che, in quanto tale, non riserva alcuna particolare cura degli esseri umani. Si tratta di una questione intrinsecamente antropocentrica: a preoccuparci sono i danni che ci colpiscono come conseguenza di quelli da noi arrecati.
In questi contesti ci si riferisce sempre alla natura, parola data per ovvia mentre non lo è. Insorge al suo riguardo una questione di fondo: essa concerne solo il nostro habitat o comprende pure l’infinito grembo dell’universo? In un passaggio autobiografico della Ginestra Leopardi afferma di sedere nottetempo nella mesta landa, da lì vede fiammeggiar le stelle che ai nostri occhi sembrano semplici punti luminosi mentre, a fronte di esse, sono la terra e il mare a essere un granello; figuriamoci allora cosa sarà mai l’uomo che a sua volta è un nulla nei confronti del globo.
Si tratta di pensieri antichi divenuti ancora più acuti in base alla cosmologia prospettataci dalla scienza contemporanea. Nella visione attuale l’universo, contraddistinto da assi spaziali e temporali che annichiliscono persino quelli della lunghissima storia della vita sulla terra, è contraddistinto da caos, disordine e distruzioni. L’ordine infatti è soltanto un esito probabilistico tra possibilità caotiche pressoché infinite: «l’apparente regolarità, che è locale e temporanea, emerge dal sottostante disordine governato da meccanismi caotici».1
Si sarebbe, quindi, tentati di affermare che le forze distruttive presenti nel nostro pianeta sono più omogenee a quel che avviene nel cosmo di quanto non lo sia il regolare succedersi del giorno e della notte.
Ormai da tempo in ambito cristiano si parla di «salvaguardia del creato». Quando si usa questa espressione si pensa all’atmosfera, agli oceani, ai fiumi, alle montagne, ai vegetali, agli animali; la mente non si dirige mai all’universo nei cui confronti il termine «salvaguardia» è privo di ogni significato. Sorge allora una domanda: Dio ha creato l’universo o ha creato solo la nostra terra? La risposta dal punto di vista teorico è costretta a optare per la prima alternativa, mentre nella dimensione pratica pensa e opera come se ci si misurasse unicamente con la seconda; soltanto questa opzione spiega perché la catastrofe, regola dell’universo, ci appare un’anomalia.
Il secondo capitolo dell’enciclica Laudato si’ («Il Vangelo della creazione») inizia chiedendosi perché in un documento rivolto a tutti gli uomini di buona volontà vi sia un riferimento alle proprie convinzioni di fede. L’interrogativo sorge in quanto si è consapevoli del fatto che alcuni rifiutano l’idea stessa dell’esistenza di un Creatore (cf. n. 62; EV 31/642). In altre parole, la natura che tutti accomuna sembra rappresentare una dimensione più universale dell’idea di creazione; eppure si afferma che la creazione è più della natura, «perché ha a che vedere con un progetto dell’amore di Dio, dove ogni creatura ha un valore e un significato. La natura viene spesso intesa come un sistema che si analizza, si comprende e si gestisce, ma la creazione può essere compresa solo come un dono che scaturisce dalla mano aperta del Padre di tutti, come una realtà illuminata dall’amore che ci convoca a una comunione universale» (n. 76; EV 31/656).
In queste righe risulta incontrovertibile che, tanto rispetto alla creazione quanto riguardo alla natura, si ragiona prendendo in considerazione solo l’ambito ristretto al nostro pianeta. Applicato all’universo il verbo «gestire» è pura assurdità; ma è forse pensabile riferire ai buchi neri una comunione universale alimentata dall’amore?
Cosa si intende per creato?
Nel lessico biblico (ripreso dal Credo) affermare che Dio creò «cielo e terra» equivale a sostenere che egli è creatore dell’intero universo. Rispetto alla cosmologia contemporanea, indicare la totalità parlando di «cielo e terra» è espressione priva di senso. Al giorno d’oggi il versetto del Salmo 8 andrebbe riformulato così: «Cosa sono il cielo e la terra perché te ne ricordi?». La «salvaguardia del creato» (al pari della dottrina sociale della Chiesa) fa parte della teologia pratica, non di quella speculativa. Qualsiasi ipotesi si avanzi sull’origine dell’universo, sembra dunque non incidere su di essa.
Eppure la risposta all’interrogativo se Dio sia il creatore dell’universo non è solo teorica; essa incide infatti sui modi d’intendere le catastrofi sia «celesti» sia «terrestri». Per quanto ignorate, per forza di cose, dalla «eco-teologia», le tante pagine «apocalittico-catastrofiche» presenti nella Bibbia (e nel Corano) sono, simbolicamente, non meno pertinenti di quelle che lodano il Signore per l’ordine e la bellezza del creato.
È fuor di dubbio che l’ecologia sia un’urgenza che interpella direttamente, ma con gradi di responsabilità ben diversi, tutti gli abitanti del nostro pianeta; tuttavia è proprio questa sua universalità «naturale» a rendere marginale il ricorso a una sua eventuale fondazione teologica. Tutti i viventi stanno lì a dimostrare che per sopravvivere non c’è affatto bisogno di teologia.
1 G. Tonelli, «Cosmo: un sistema ordinato?», in Esodo (2020) 4, 41.