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Attualità
Attualità, 16/2021, 15/09/2021, pag. 541

Tempo opportuno

La Seconda lettera a Timoteo

Piero Stefani

Nella Seconda lettera a Timoteo vi è un monito che, preso a sé, risuona agli orecchi di molti adatto ai nostri giorni: «Annuncia la Parola, insisti nel tempo opportuno e nel tempo non opportuno» (2Tm 4,2). Sorge un interrogativo: è opportuno o inopportuno riproporlo?*

A partire dal XVIII secolo le due Lettere a Timoteo e quella a Tito sono qualificate «pastorali». Dal XIX secolo la stragrande maggioranza degli studiosi le attribuisce non a Paolo bensì a un autore successivo. Tutti sono però concordi nel sostenere che la Seconda a Timoteo è la lettera più paolina tra le tre epistole non autenticamente paoline. Lo è per il tono di congedo autobiografico che l’informa. La Prima esprime il consueto desiderio di Paolo d’incontrare la comunità a cui sta rivolgendo la propria missiva; nella Seconda, indirizzata a Efeso, Paolo chiede a Timoteo di raggiungerlo a Roma, città nella quale si trova prigioniero. Il grande viaggiatore è ormai costretto a essere stanziale; ora sono gli altri a dover andare da lui.

Lettere pastorali: sono tali perché rivolte a un’autorità impegnata nel governo di una comunità; lo sono perciò in quanto dirette a un pastore e non già perché scritte da un pastore. In base all’opinione più diffusa, il primo scritto di Paolo è costituito dalla Prima lettera ai Tessalonicesi. In essa anche i passi in cui si parla dell’autorità sono indirizzati direttamente alla comunità: «Vi preghiamo, fratelli, di avere riguardo per quelli che faticano fra voi, che vi fanno da guida nel Signore e vi ammoniscono, trattateli con molto rispetto e amore, a motivo del loro lavoro» (1Ts 5,12s).

La prima epistola paolina è una missiva rivolta a una comunità che ha delle guide; di contro, 2Tm è una lettera inviata a una guida (un «lavoratore») che ha una comunità: «Sforzati di presentarti a Dio come una persona degna, come un lavoratore che non deve vergognarsi e che dispensa rettamente la parola di verità» (2,15).

«La parola di verità»

Nelle lettere pastorali il tema della trasmissione è pensato non come una successione istituzionale (trasmissione del potere) bensì come una successione didattica (trasmissione di una dottrina veritiera). Si tratta di insegnamenti da custodire: «O Timoteo, custodisci ciò che ti è stato affidato (depositum custodi)» (1Tm 6,20); «Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato» (2Tm 1,14). Nei Salmi «custodire» è verbo divino, è il Signore che protegge noi (cf. Sal 121); nelle pastorali, nonostante l’appello allo Spirito, l’accento batte invece su una vigilante custodia dottrinale di pertinenza umana.

Che cosa va custodito? Per definizione ciò che si rischia di perdere; nello specifico si tratta di una realtà collegata ai contenuti della retta fede. Il pendolo comincia a inclinarsi verso la fides quae. Nella Lettera non compare il tema moderno del dubbio, a fare la parte del padrone è la denuncia di avversari che insegnano dottrine distorte che minano i contenuti della fede. Non a caso, persino nelle parole di congedo contenute nella Lettera, le espressioni agonistiche sono seguite da quelle di una custodia di una realtà sempre esposta al rischio dello smarrimento: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,7). La fede è diventata un patrimonio veritativo da proteggere.

Rivolgendosi a Timoteo, Paolo aveva evocato la schietta fede «che ebbero anche tua nonna Lòide e tua madre Eunice, e che ora, ne sono certo, è anche in te» (2Tm 1,5). Secondo gli Atti degli apostoli, Timoteo era di padre greco e di madre giudea credente (cf. At 16,1-3). Si va alla ricerca di un principio di continuità che fa appello al ramo femminile della famiglia, una dimensione tutt’altro che estranea a contesti risalenti a epoche a noi molto più prossime. Eppure le lettere pastorali contengono parole molto dure nei confronti delle donne ricondotte a un regime di subordinazione tipico, si è soliti sostenere, della società circostante (cf. 1Tm 2,9-15; Tt 2,3-5).

Particolarmente insidiose sono quindi ritenute le donne desiderose d’apprendere un sapere distorto: «Fra questi ci sono alcuni che entrano nelle case e circuiscono alcune donnette cariche di peccati, in balia di passioni di ogni genere, sempre pronte a imparare, ma che non riescono mai a giungere alla conoscenza della verità» (2Tm 3,6-7). Si crea dunque una specie di antitesi tra la fede non finta della nonna e della madre di Timoteo e il disordinato desiderio di apprendere attribuito a «donnicciuole».

«Ti scongiuro davanti a Dio e a Gesù Cristo che verrà [alla lettera “in procinto di”] a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina [...] Tu però vigila attentamente, sopporta le sofferenze, compi la tua opera di annunciatore del Vangelo [alla lettera: “fai l’evangelista”], adempi il tuo ministero» (2Tm 4,1-5).

Per riferirci a lessici recenti, la riga conclusiva sembra evocare la prospettiva di una «nuova evangelizzazione» diretta a coloro che, più o meno nominalmente, fanno già parte della comunità dei credenti. Nonostante l’iniziale richiamo escatologico (riferito però a Gesù Cristo, visto ormai soprattutto sotto la veste di giudice), gli imperativi rivolti da Paolo a Timoteo sono tutti incentrati sul tempo presente. I tempi ultimi si sono trasformati in una realtà su cui giurare, non già da invocare. Il Marana tha (1Cor 16,22) ha cessato di risuonare; la dottrina prevale sull’attesa.

«Sana dottrina» e testimonianza vivente

Le forti esortazioni contenute nella Lettera sono indirizzate a un vescovo. Dal punto di vista storico, è certo che le comunità di cui parlano le lettere pastorali non furono contraddistinte da un episcopato monocratico. Si era di fronte a un gruppo di pastori nel quale, in un contesto collegiale, era difficile distinguere tra presbiteri e vescovi (parola in se stessa di origine tutt’altro che alta; una resa prossima all’etimo sarebbe «sorveglianti»; cf. Tt 1,5-9).

Prevale l’idea di amministrare; non è quindi improprio evocare la casa. La stanzialità prende il posto dell’itineranza che fu degli apostoli e dei profeti (a cui le lettere pastorali non fanno alcun cenno). Secondo la Didachè (cf. 11,5-6) un soggiorno di tre giorni da parte di profeti e apostoli era segno certo della loro falsità, mentre gli episcopi vanno eletti al fine di svolgere la funzione di profeti e di maestri (cf. Didachè 15,1-2).

Di contro, nelle Lettere a Timoteo e a Tito, il quadro è statico e post-profetico; l’attività pastorale si basa ora su due pilastri ormai consolidatisi: gli insegnamenti ricevuti e la Scrittura in cui occorre rimanere saldi (2Tm 3,14-17).1

Annuncia, insisti, correggi, rimprovera, esorta per contrapporti al tempo (kairòs) in cui non si sopporterà più «la sana dottrina» quando per «prurito di udire» si accumuleranno maestri scelti a capriccio preferendo le favole alla verità (2Tm 3,3-4). È appunto in questo contesto che bisogna compiere l’opera di annunciatore del Vangelo. Quest’ultima, situandosi all’interno di una comunità di credenti giudicati potenziali o reali devianti, è tuttavia impossibilitata a riproporre la veste originaria di liberante annuncio kerygmatico di Gesù Cristo morto e risorto.

Nelle lettere pastorali «fare l’evangelista» significa lottare per conservare la «sana dottrina» insidiata da falsi maestri. Una realtà ben comprensibile pure ai nostri tempi, specie se il termine «dottrina» fosse sostituito da quello di «valori».

Di tutti gli imperativi contenuti nella Lettera quello che resta più nella memoria è: «insisti al momento opportuno e non opportuno». Così nella traduzione CEI. In greco (e anche nella Vulgata) non c’è però la «e», vi è semplicemente eukairòs àkairos insta, opportune inopportune»). Nell’ossimoro dell’accostamento privo di congiunzione di due termini contrapposti vi è l’aspetto più reale e istruttivo del monito.

Quando, nell’ambito della propria comunità, gruppo, famiglia e così via, s’insiste per una giusta causa si è sempre, per definizione, contemporaneamente a tempo e fuori tempo. Lo si è per il semplice fatto di insistere. È opportuno farlo ma proprio questo atto rimarca la presenza di un precedente, inopportuno fallimento. Il monito non è riconducibile al tema superficiale d’importunare le persone. La tensione tra gli estremi è insita nello stesso oggetto. Se «insistere» fosse il solo modo di rendere il verbo originale la precisazione sarebbe addirittura pleonastica (o al più rafforzativa).

Il greco ha però ephistemi che ha anche il senso di presentarsi, sopraggiungere, farsi presente. Qualunque sia la versione adottata, si è comunque di fronte a una battaglia di retroguardia. L’insistenza prescritta a Timoteo presupponeva la constatazione che la diffusione della sana dottrina non fosse stata in grado di frenare il «prurito di udire»; dal canto suo la «nuova evangelizzazione» ha come suo inevitabile presupposto il fallimento dell’evangelizzazione precedente.

La paradossale attualità delle lettere pastorali si trova nella loro involontaria forza profetica d’anticipare dinamiche presenti nella storia di una Chiesa dominata dall’assillo dapprima soprattutto dottrinale e poi valoriale. La Seconda a Timoteo è una profezia senza profeti. In essa è dato di leggere tra le righe un anticipo delle ripetute battaglie di retroguardia combattute dalla Chiesa nel corso della sua storia e fattesi particolarmente evidenti in età moderna. Non si tratta però solo di questo.

L’ingiunzione di sopportare le sofferenze come condizione per adempiere il proprio ministero di «evangelista» è asserzione pregna di verità. O meglio lo è nel caso in cui sia motivata dallo sconfinato dolore del mondo, mentre suona falsa quando è suscitata da un risentito ripiegamento su sé stessi.

Di fronte al kairos, in un sol tempo opportuno/inopportuno, conviene evocare altri due «tempi» chiamati in causa dalla 2Tm. Vi è infatti il kairos di quando non si sopporterà più la «sana dottrina», ma anche quello in cui Paolo afferma che è giunto per lui il tempo di essere «versato in offerta» (4,6). In senso proprio il passo è riferito al momento supremo di una vita sacrificata sull’altare del Signore; esistono però anche martìri quotidiani contraddistinti anch’essi dal sigillo della verità.

Ciò avviene allorché si mostra di aver «conservato la fede» non già in quanto si è custodito la «sana dottrina», ma perché si è diventati testimoni viventi dell’affermazione alta e difficile secondo la quale Dio si prende ancora cura del suo mondo.

 

 

* Riprendo la meditazione tenuta nel corso della redazione allargata del Il Regno svoltasi nella chiesa di Polenta il 21 luglio scorso.

1 Con il termine «Scrittura» ci si riferisce ovviamente alla sola Bibbia ebraica.

Tipo Parole delle religioni
Tema Teologia Ecumenismo - Dialogo interreligioso
Area
Nazioni

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