Luci di Natale
Rapiti all’amore delle realtà invisibili
Durante il tempo natalizio, ancora prossimo nel ricordo ma ormai, in quanto a cronologia, irrimediabilmente alle nostre spalle (il Natale del 2019 non tornerà più), la liturgia proclamò nel Prefazio: «Nel mistero del Verbo incarnato agli occhi della nostra mente nuova è apparsa la luce splendente del tuo fulgore: perché, conoscendo Dio visibilmente, per suo mezzo siamo rapiti all’amore delle realtà invisibili».1 Lungo le settimane dell’Avvento, attraverso Giovanni Battista, si era udito l’imperativo secondo cui occorreva cambiare mentalità (verbo metanoeo; cf. Mt 3,2); lo stesso pressante invito contraddistinguerà l’inizio della predicazione di Gesù (cf. Mt 4,17). Dal canto suo il Prefazio, nel momento della celebrazione liturgica, lungi dall’impiegare l’imperativo, afferma all’indicativo l’avvenuta acquisizione di una mente nuova.
Lo splendore del «tuo fulgore» rifulge soltanto agli occhi di una mente rinnovata, esso non è colto con la vista. Durante il periodo delle luminarie (che ormai inizia sempre prima e finisce sempre dopo) i due occhi infissi nelle nostre teste hanno visto ben altro. La parodia della luce vera costituita dalle luminarie (non a caso termine impersonale e astratto) sostituisce gli occhi del corpo a quelli della mente.
Quelle luci prive di pudore ci fanno naufragare nel visibile. In effetti anche la luce vista con gli occhi può rapire, ciò avviene quando rimanda ad altro da sé, vale a dire allorché diviene un simbolo. Nella notte di Pasqua il cero acceso fino a essere visto dalla stella del mattino testimonierà in pienezza questa possibilità. La forza della luce è però tanto grande da attribuire un significato «altro» anche a situazioni che, in loro stesse, forse ne erano sprovviste.
Nella memoria culturale dell’Occidente, il caso più celebre di questa dinamica è costituito dalle ultime parole pronunciate da Goethe: «Mehr Licht» (più luce). Secondo Johann Peter Eckermann, che assistette al decesso del suo maestro, Goethe chiedeva semplicemente che fosse aperta la seconda imposta della finestra perché da essa entrasse più luce; tuttavia, fin dal 22 marzo del 1832 quelle parole sono state rivestite di un significato simbolico. Esse indicano il bisogno di far incontrare gli occhi del corpo con quelli dell’anima.
Nessuna traslazione è invece attuabile di fronte alle luminarie natalizie le quali, di fatto, rimandano irrimediabilmente solo a sé stesse. In realtà esse sarebbero dotate di pretese simboliche; non sono lampioni di strada che si accendono 365 notti all’anno per contrastare il buio fisico. Le luminarie servono per essere viste e non già per far vedere; per questo motivo sono accese soltanto nel periodo delle feste. Eppure il loro significato simbolico si è ormai esaurito; il trionfo dell’autoreferenzialità avviene a motivo della programmata incapacità di rimandare ad «altro da sé». Di fatto le luminarie natalizie sono ricondotte soltanto a essere un segno sfavillante nel calendario degli acquisti per suscitare un rapimento rivolto all’amore delle cose visibili.
Vedere l’invisibile
«Conoscendo Dio visibilmente». L’espressione, sulle prime, suscita qualche sconcerto. In una sua omelia natalizia di qualche anno fa, il vescovo di Novara, Franco Giulio Brambilla, si chiedeva opportunamente: «Come può essere conosciuto visibilmente colui che in tutta la Scrittura – per definizione – è il “Dio nascosto”? “Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1,18): così inizia il Vangelo di Giovanni! “Il Figlio unigenito, che è Dio ed è rivolto verso il seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (ivi) [...] Lui ne è il “racconto”. Per questo il Prefazio ci indica la via per riconoscerlo: conoscendo l’icona visibile (Gesù) del Dio invisibile». Oltre a questa, ci sono però altre domande collegate a un «visibiliter» che gli occhi del corpo non riescono a vedere.
La Prima lettera di Giovanni, dopo aver chiamato in causa udito, vista e tatto in relazione all’annuncio e alla testimonianza del «Verbo della vita» (cf. 1Gv 1,1-2), aggiunge: «Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che vi annunciamo: Dio è luce e in lui non vi è tenebra alcuna» (1Gv 1,5). È l’udito (e non la vista) a farci sapere che Dio è luce. Si conosce Dio visibilmente in quanto non lo si riconosce con gli occhi. La mente nuova, attraverso la fede nata dall’ascolto (cf. Rm 10,17), afferma che la Parola si è incarnata, si è, cioè, resa visibile.
Nella culla di Betlemme così come, trent’anni dopo, sulle strade di Galilea o sul colle del Calvario si vede soltanto un essere umano. Ci si può chiedere se l’espressione «rapiti all’amore delle realtà invisibili» non comporti innanzitutto il venir catturati nella rete della fede.
Preso alla lettera, il Prefazio sembra muoversi in due direzioni: da un lato afferma che Dio si è fatto visibile e dall’altro dichiara un rapimento verso l’invisibile. Se quanto non si vede è la fede nella Parola incarnata, per incontrare l’invisibile non c’è bisogno di proiettarsi nei cieli. Attraverso gli invisibili occhi dell’ascolto, la fede proclama la visibilità della Parola incarnata.
In un contesto privo d’ogni riferimento cristologico, un orientamento paragonabile lo si trova in una pagina del pensatore ebraico medievale Yehudah ha-Lewì. La Prima lettera di Giovanni inizia affermando «quel che era da principio» riferendolo al «Verbo della vita» udito, visto, toccato; Yehudah, dal canto suo, si riferisce a un altro principio: quello dell’esodo e della rivelazione sinaitica. All’interno di questa differenza si annidano però somiglianze: «Quando mi hai interrogato sulla mia fede, ti ho risposto con ciò che sono obbligato a credere, ed è obbligata a credere tutta la congregazione di Israele, davanti ai cui occhi si manifestò quello spettacolo [l’esodo e il Sinai]; e poi [tutto ciò che fu confermato da] la costante e continua tradizione, che è come vista con gli occhi...».2 Anche in Yehudah siamo di fronte agli occhi dell’udito.
Gesù di Nazaret fu un uomo vissuto in una regione marginale dell’Impero romano che, dopo aver predicato e operato, fu condannato a morte per poi essere proclamato risorto a opera dei suoi discepoli. Come avviene in pratica per tutti gli avvenimenti narrati dalla Bibbia, anche nel caso di Gesù il corso della storia visibile del mondo è mutato assai poco a causa della forza intrinseca degli atti da lui compiuti, nessuno dei quali ha prodotto modifiche geopolitiche percepibili.
Le cose stanno però in modo ben diverso per l’enorme incidenza esercitata dalla predicazione dell’Evangelo. Si sia o non si sia credenti, è obbligo constatare che le vicende del mondo visibile sono mutate a seguito della diffusione dei messaggi contenuti e trasmessi dalle comunità dei credenti in Gesù Cristo. La storia visibile è cambiata in virtù della fede nell’invisibile.
Credere nell’invisibile
Crediamo nella Parola incarnata senza vederla (cf. Gv 20,29). La fede invisibile ha inciso sul mondo senza tuttavia redimerlo. La storia continua a essere piena di orrori e tragedie che si rinnovano implacabilmente giorno dopo giorno. Agli occhi della fede (non a quelli del corpo) questo stato di cose non costituirà tuttavia la sorte definitiva delle realtà visibili. Per l’esperienza visiva l’esito ultimo dell’esistenza, tanto individuale quanto collettiva, è l’estinzione. Si vedono cadaveri, non anime immortali o corpi risorti.
Per questo fede e speranza si collocano nell’invisibile: «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (Eb 11,1) e ancor più radicalmente: «Nella speranza siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,24-25).
Essere «rapiti dall’amore delle realtà invisibili» significa porre la speranza al centro della vita di fede. A quanto ci è dato vedere, ciò avviene poco. E l’amore? Dall’interno delle Chiese si sente proclamare che Dio ama tutti. Un qualificante documento ecumenico invita a rinnovare «la nostra testimonianza a essere fedeli araldi dell’amore infinito di Dio per tutta l’umanità».3
Siamo di fronte a una situazione che a molte menti, forse persino se rinnovate, appare paradossale: Dio ama le creature umane di un amore infinito ma esse se ne accorgono soltanto se qualcuno glielo dice. Si avverte di essere amati unicamente per interposta persona. Il fatto che si continui a proclamare il tenero amore di Dio rivolto a esseri che nelle loro vite desolate incontrano rare tracce persino dell’amore umano attesta che anche l’amore di Dio, non meno della fede e della speranza, appartiene alla sfera delle realtà invisibili.
1 «Quia per incarnati Verbi mysterium nova mentis nostræ oculis lux tuæ claritatis infulsit; ut, dum visibiliter Deum congoscimus, per hinc in invisibilium amorem rapiamur».
2 Yehudah Ha-Lewì, Il re del Khàzari, 1,25, trad. it. di E. Piattelli, Boringhieri, Torino 1960, 30s.
3 «Piuttosto che i conflitti del passato, il dono divino dell’unità tra di noi guiderà la collaborazione e approfondirà la nostra solidarietà. Stringendoci nella fede a Cristo, pregando insieme, ascoltandoci a vicenda, vivendo l’amore di Cristo nelle nostre relazioni, noi, cattolici e luterani, ci apriamo alla potenza di Dio uno e trino. Radicati in Cristo e rendendo a lui testimonianza, rinnoviamo la nostra determinazione ad essere fedeli araldi dell’amore infinito di Dio per tutta l’umanità» (Dichiarazione congiunta in occasione della Commemorazione cattolico-luterana della Riforma, Lund, 31 ottobre 2016; cf. Regno-doc. 19,2016,585s).