Lila
L’ultimo romanzo della trilogia di Marilynne Robinson dopo Gilead (Regno-att. 14,2018,422) e Casa (Regno-att. 2,2019,38), Lila (Einaudi, Milano 2017) racconta la vita di Lila, la moglie giovane del pastore John Ames, l’incantato narratore del primo volume, sorpreso dalla buona novella di un amore arrivato in età oltreadulta, inatteso, accolto. Pura gioia, pura trasformazione, pura metanoia, conversione alla Grazia che anche per noi fa nuove le cose.
La storia di Lila comincia con una fuga, necessaria fuga, dalla casa in cui non ha mai abitato, più fuori che dentro, non vista, senza voce, senza desideri possibili. «La bambina se ne stava al buio sui gradini dell’uscio, le braccia strette intorno al corpo, a difendersi dal freddo, senza più lacrime e quasi addormentata. Non aveva la forza di urlare ancora, ma tanto non la sentivano e, nel caso, sarebbe stato ancora peggio» (3).
Dentro litigano «fino a quietarsi», lei ha paura fuori dalla porta ma ha più paura che la porta si apra. È notte e malgrado intorno esistano adulti, sono del tutto incompetenti a prendersi cura di lei, in mille modi diversi probabilmente vittime a loro volta della povertà e di chissà quali altri abbandoni.
Nel ricordo appare una donna, Doll, che prende la bambina non sua, la avvolge in un qualche straccio e la porta via. Forse qualcuno chiede a Doll dove va con la bambina, ma niente di più. Il ricordo è di Lila, che parla al bambino suo e del pastore John Ames, gli parla mentre ancora sta nella pancia. Lo rassicura, lei sarà una mamma diversa, e se dovrà andarsene da lì dove si trova, la casa del pastore, lei se ne andrà con quel figlio che nascerà e comunque, questo intende dirgli Lila nel ricordare e parlare, qualsiasi sia la vita che lo attende, vivere bene si può. «Si può vivere bene in molti modi», gli scriverà suo padre, il pastore John Ames, nella lunga lettera-testamento che gli scriverà.
Veniamo così a sapere che la sua vita è stata terribile, come tante dopo il Grande crollo, nell’America del Midwest. Una giovinezza «consumata nel lavoro prima ancora di avere inizio» (18). Poi arriva a Gilead, conosce il reverendo, pochissimo in verità, e lo sposa. Ma non sa l’arte della relazione, è nata sola e a parte Doll che le ha salvato la vita, è sempre stata sola. Così ogni tanto fa cose come se fosse ancora sola. Un giorno esce la mattina prestissimo, va al fiume, si immerge, torna per un momento alla sua vita di prima, l’altra vita, così la chiama.
È domenica, il reverendo non la trova, va in chiesa, pensa che sia sparita. Lei invece è a casa e quando torna gli dice che aspetta un bambino. Non è il momento né il modo, ma John Ames prende la sostanza della cosa. Lei c’è, c’è anche un bambino, lui la ama e lei è libera, sempre. Solo sapendo che è sempre libera di andare, Lila può restare. Come chiunque. La libertà non è l’antitesi dell’amore: «Tu sei mia moglie. Voglio prendermi cura di te, anche se questo volesse dire accompagnarti al treno, un giorno» (25). Non ci sarà quel giorno.
Lila è suo malgrado un’interlocutrice acutissima nelle questioni teologiche del pastore suo marito. Lui si alza nella notte inseguendo un’intuizione che nel buio sembra brillare per finezza e novità. Una mattina espone a Lila un abbozzo di sermone su come le cose accadono per motivi che restano nascosti agli uomini, anche se ostinatamente cerchiamo le ragioni del presente nel passato e ci sfianchiamo a interpretarlo in continuità: «La vita sulla terra è difficile e grave e piena di meraviglie» ma «non è possibile conciliare i vari elementi dell’esistenza, perché ci vengono dati senza alcuna necessità ad eccezione della grazia di Dio» (233).
Lila ascolta e risponde: «Beh, a quanto capisco, volevi conciliare le cose dicendo che non possono essere conciliate» (234).
Accettare la vita. Non bloccarne il movimento. Accogliere la Grazia quando arriva. Lui avrebbe voluto restare per sempre fedele alla prima moglie, morta insieme alla loro bambina. E lo aveva fatto, una cosa importante per lui, per molti anni. Ma l’arrivo di Lila gli fa dire che in fondo era «fedele alla sua fedeltà», che quel fissare la vita in un punto era un peccato contro la Grazia.
Lila ha accettato tutto, la sua infanzia disgraziata, la sua vita segnata da sventure a cui era impossibile sottrarsi. Accettare di essere dentro per poter imboccare il varco quando si presenta. Si sottrae, Lila, ai ceppi e alle trappole, appena ne ha la forza. E saranno due cose a salvarla alla fine, cioè a portarla a una vita assolutamente accettabile, in cui poter mettere insieme la propria serenità con quella di chi la circonda.
La salva la terra, che lei ritrova a ogni passaggio. Il suo primo vero contatto con la vita è stata la terra che Doll le insegna a dissodare e coltivare. Appena potrà, da grande, ancora intrappolata nella casa di una Madame come tante altre, coltiverà dei fiori, lungo il muro di confine. Poi, quando arriverà a Gilead, si offrirà per coltivare orti e giardini. Pianterà rose splendide sulla tomba della prima moglie del pastore.
E poi la salva la chiesa. L’edificio. L’unico luogo al mondo in cui chiunque può entrare. Che sia per pregare, o riposare, o ripararsi dalla pioggia. È lì che trova il pastore che sarà suo marito.
Felice chi non ha ancora letto Lila, perché in qualsiasi momento ha un incanto da scoprire. Felice anche chi lo ha letto, perché lo porta dentro come un giardino. E speriamo che Marilynne Robinson vinca prima o poi il premio Nobel.