Il bacio di giustizia
E la ricerca della pace
Nelle attuali classificazioni l’ampia sezione del libro del Deuteronomio estesa dal 12o al 26o capitolo viene conosciuta con l’espressione «codice deuteronomico».* Si tratta di una formulazione anacronistica che spinge indietro nei millenni uno spirito di stampo napoleonico. La raccolta di norme contenute nell’ultimo libro del Pentateuco è infatti inquadrata in un contesto narrativo irricevibile nelle moderne legislazioni.
L’incipit mette di per sé in chiaro la prospettiva. Nel primo versetto, si parla delle leggi e delle norme che il popolo d’Israele avrà cura di praticare nella terra che il Signore, Dio dei padri, è in procinto di dargli in eredità (cf. Dt 12,1). Ambientato alla fine dei quarant’anni di pellegrinazione desertica, il Deuteronomio si proietta all’indietro quando rievoca le vicende dell’esodo e in avanti allorché si occupa di legislazione. La natura prospettica del discorso lascia intravvedere il carattere ideale di norme legate a un determinato modo d’abitare la terra d’Israele.
In relazione alla presenza ebraica sulla terra si afferma: «Non farete come noi facciamo qui oggi quando ciascuno fa quanto è retto ai propri occhi perché non siete ancora giunti al luogo del riposo e nel possesso [alla lettera “eredità”, nachalah] che il Signore vostro Dio sta per darvi» (Dt 12,8-9).
L’atto di soggiornare nella terra nella quale si entrerà è connotato da una contrapposizione rispetto allo stile di vita attuale. «Fare quanto a ciascuno è retto ai propri occhi» è un’espressione che caratterizza la parte finale, filomonarchica, del libro dei Giudici (cf. 17,6; 21,25). La giustificazione addotta è che ci si comportava così perché a quel tempo non c’era un re.
L’osservazione del Deuteronomio è di natura diversa. Essa riguarda il nesso legge-giustizia-terra. Il dominio del principio soggettivo secondo il quale ognuno agisce come meglio gli pare dipende non dall’assenza di un sovrano, bensì dalla mancanza di un modo retto di abitare la terra. La maniera giusta è costituita dalla presenza della Legge. Per la comunità d’Israele il nesso «Torah-popolo-terra» è però condizionale.
Ad affermarlo nella maniera più esplicita è il Levitico: «Che la terra non vomiti anche voi per averla resa impura come ha vomitato il popolo prima di voi» (Lv 18,28). Le immagini, per noi inaccettabili, dello sterminio dei sette popoli presenti nella terra di Canaan (cf. Dt 7,1-6) simbolicamente stanno a significare la necessità di un radicale cambiamento rispetto sia a un modo di agire basato solo su ciò che è retto ai propri occhi, sia a uno stile di vita collettivo ingiusto e sopraffattorio.
Quando l’offerta diventa corruzione
II 16o capitolo del Deuteronomio, subito dopo essersi occupato delle tre feste di pellegrinaggio, Pasqua, Settimane, Capanne, parla di giudici e di giustizia. Si stabiliscono prescrizioni rituali e nel contempo si pone l’accento su una giustizia volta a dirimere contrasti. Siamo di fronte a un discorso apparentabile a quello, più intenso e personale, che impone di riconciliarsi con il fratello che ha qualcosa contro di te prima di portare l’offerta all’altare (cf. Mt 5,23-24).
Anche il Deuteronomio sembra suggerirci che occorre collegare il culto alla giustizia. Nell’ultimo libro del Pentateuco vi è però una differenza rispetto alla dinamica evangelica: in Matteo si parla di una riconciliazione a due, mentre nel Deuteronomio si prospetta la figura del giudice, vale a dire di un terzo dotato di un potere decisionale.
Cosa avviene quando interviene un’autorità? Può capitare che ci siano tentativi di corruzione. È vero che anche nei rapporti a due s’incuneano, a volte, processi di riconciliazione superficiali nei quali il denaro copre di un velo leggero stati d’animo profondi. In questi casi non c’è comunque un terzo da corrompere.
Il brano su cui ci stiamo concentrando è contraddistinto da un contrasto molto netto tra due modi antitetici di fare offerte e doni. Dapprima si afferma: «Nessuno si presenterà davanti al Signore a mani vuote, ma il dono di ciascuno sarà in proporzione della misura della benedizione che il Signore tuo Dio, ti avrà dato» (Dt 16,16). L’offerta a Dio è compiuta per ringraziarlo e non per ingraziarselo.
Per questo motivo ognuno dà in proporzione a quello che ha ricevuto; agli occhi del Signore la differenza quantitativa non intacca la qualità dell’offerta. Il clima agricolo delle feste di pellegrinaggio le rende una specie di Thanksgiving. La terra infatti è una eredità e i suoi frutti sono benedizioni. A causa di ciò la festa va a vantaggio anche di tutti coloro che in proprio non posseggono nulla: «Gioirai davanti al Signore, tuo Dio, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava, il levita che abiterà nelle tue città, il forestiero, l’orfano e la vedova» (Dt 16,11).
Sull’altro versante è proibito con il massimo vigore di presentarsi a mani piene di fronte al giudice: «Non accetterai regali, perché il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe le parole del giudice» (Dt 16,19). Siamo all’opposto dell’offerta rivolta al Signore.
Il donativo volto a corrompere lo si fa per ingraziarsi qualcuno e non per ringraziare, la sua efficacia è direttamente proporzionale all’ammontare del valore, infine, lungi dall’andare a beneficio di altri, l’operazione afferma il proprio tornaconto a svantaggio di quello del prossimo. La logica della corruzione non comporta proporzionalità.
La quantità è in se stessa un fattore discriminante: tanto più si ha, tanto meglio si riesce a corrompere. Per il giudice corrotto il dono del ricco vale sempre di più di ogni vano tentativo compiuto dal povero. La corruzione è fondata su una discriminazione tra ricchi e poveri che non conta affatto quando si compie una offerta al Signore (cf. Mc 12,41-44).
La corruzione non è solo un atto disonesto, è anche una via per far fruttare a proprio vantaggio le disuguaglianze sociali; essa perciò è un ulteriore modo per umiliare i poveri. Quanto valeva nell’antico Israele vale tutt’ora a ogni latitudine e longitudine.
Oltre alle leggi, la conoscenza di Dio e la pace
«Zedeq, zedeq tirdof. La giustizia, solo la giustizia seguirai» (Dt 16,20). Il testo ebraico in riferimento alla giustizia ricorre al verbo radaf. Nel suo senso letterale esso significa: inseguire, andare a caccia o in cerca, seguire una pista; in senso figurato, ambire, agognare. La giustizia non è un tranquillo dato di fatto, è una realtà da inseguire. Nessuno è nelle condizioni di affermare che essa è già pienamente realizzata. Anzi, essa c’è proprio nel momento in cui la si insegue, si palesa quando se ne ha fame e sete (Mt 5,6). «Ti costituirai giudici e scribi in tutte le città che il Signore tuo Dio ti dà» (Dt 16,18).
La pur indispensabile presenza di istituzioni da sola non basta; essa va accompagnata da una ricerca costante e instancabile della giustizia. Il fatto di aver costituito giudici non esonera dall’inseguire la giustizia. L’antitesi perfetta di quanto ci è prospettato dal Deuteronomio la si trova nel primo capitolo del libro di Isaia, dove il verbo radaf è riferito al termine «regali».
La città in cui un tempo dimorava la rettitudine ora è piena di violenza, di latrocini, inoltre: «Tutti sono bramosi di regali e ricercano mance. Non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova fino a loro non giunge» (Is 1,23). L’opposto autentico alla corruzione non è tanto l’onestà declinata al presente quanto l’anelito, mai sopito, che si prova nei confronti della giustizia.
Cosa significa ricercare la giustizia? Vi sono aree a essa vicine? Se seguiamo le indicazioni che ci giungono dal verbo radaf, troviamo che le correlazioni più rilevanti sono due: la conoscenza di Dio e la pace. Si legge in Osea: «Aneliamo alla conoscenza del Signore» (Os 6,3).1
Per questo tipo di conoscenza il profeta intende un comportamento contrapposto a quello da lui descritto in questi due versetti: «Non c’è infatti sincerità né amore, né conoscenza di Dio nella terra. Si spergiura, si dice il falso, si uccide, si ruba, si commette adulterio, tutto questo dilaga e si versa sangue su sangue» (Os 4,1-2). La non conoscenza di Dio comporta la violazione dei comandamenti incentrati sulle relazioni interumane. In senso affermativo è quindi obbligo concludere che ricercare la conoscenza di Dio significa impegnarsi perché i rapporti sociali e individuali siano conformi a giustizia.
«Ricerca (verbo baqash) la pace e inseguila (verbo radaf)» (Sal 34,15). Chiosa un commento giudaico: «La Torah non ordina di correre dietro e di inseguire i comandamenti ma solo di metterli in pratica quando capita l’occasione (...) ma la pace la dovete cercare nel vostro stesso luogo e correrle dietro in altri luoghi» (Numeri Rabbah 19,27).
S’insegue quel che sfugge, non quanto è pienamente presente. Il bacio reciproco tra la giustizia e la pace (cf. Sal 85,7) è l’esito di una ricerca appassionata. «Se un uomo resta fermo e tranquillo nel suo luogo di residenza come può perseguire la pace tra uomo e uomo? Ma lasci il suo posto e giri per il mondo e persegua la pace d’Israele» (Avot de Rabbi Natan A,12). La ricerca della giustizia e della pace è un impegno che ci chiama a uscire da noi stessi al fine di prenderci cura di altri; a tale scopo è d’obbligo girare per il mondo in maniera ben diversa da quella cara ai turisti.
* Riprendo alcuni temi provenienti dalla predicazione su Dt 16,11-20, tenuta presso la chiesa metodista di Bologna il 22.1.2019, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
1 Traduzione CEI: «Affrettiamoci a conoscere il Signore».