Il giardiniere, la morte e i fiori
«Al giardino ancora non l’ho detto – / non ce la farei. / Nemmeno ho la forza adesso / di confessarlo all’ape». Pia Pera traduce così la poesia n. 50 di Emily Dickinson da cui prende il titolo per il suo ultimo libro, Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie, Milano 2016). Gennaio 2016, Pia Pera è morta sei mesi dopo e qui lei racconta il suo andare, il suo vivere diretta a occhi aperti e con pensiero temperato, verso la fine di questo nostro abitare terreno. Abitare terreno è un’espressione giusta per entrare in un libro splendido che la primavera piovosa e spavalda di questi mesi riporta fra le mani. Perché questo è un libro nato dalla terra.
Pia è una donna coltissima, esperta di svolte importanti nella sua vita. È slavista e rinuncia a insegnare all’università, è traduttrice e scrittrice inquieta e raffinata (e anche liberamente ispida, Diario di Lo provocò un gran parlare e un bel po’ di guai per lei) e nel mezzo di questo suo mondo incontra la terra, l’orto, il giardino, la natura come cura e così la conosciamo per la rubrica di Gardenia dal titolo bellissimo: «Apprendista di felicità».
La svolta della malattia rivela ancora altro alla sapienza della sua vita. Lo racconta nell’Introduzione. Il verso della Dickinson le viene incontro una sera d’autunno a Mantova e la colpisce «come una rivelazione» (11). Lo intende come una specie di rovesciamento di prospettiva. La morte ferisce chi rimane nella forma di un abbandono. Il giardino come cura regala a chi lo disegna l’idea di creare, anche se il giardiniere, in questo caso la giardiniera sensibile che era Pia Pera, ha l’intento consapevole di assecondare la natura, non intende forgiare ma scoprire di volta in volta la pianta, il sentiero già disegnato, il cuscino di spontanee che va solo appena un poco difeso dalle altre piante più invadenti.
Questa è una prima lettura del verso che Pia Pera smonta dopo poche righe. Pensare alle «piante di cui non potremo più prenderci cura, al cagnolino che non nutriremo» (15) è forse un modo ulteriore di darsi importanza. Falsa umiltà di un io che non si arrende. Quando Pia Pera si ammala il dialogo con il suo giardino accompagna il modificarsi dei rituali, la trasformazione dei rapporti con le persone.
C’è la fitta di scoprire l’abbandono proprio nell’istante della fragilità: «Un giorno di giugno di qualche anno fa un uomo che diceva di amarmi osservò, con tono di rimprovero, che zoppicavo» (17). Capita. Esiste chi non trova il cuore di stare a fianco di chi sta male, anche se amato, amata. C’è la ricerca della cura, anche dove non saremmo mai andati se non ci fosse capitata la malattia progressiva, da giovani, impensata.
Ci sono poi guaritori, millantatori, promettitori, anche in buonafede, o semplicemente a volte le cose migliorano un poco ma il male rimane. Si chiama limite, fragilità. C’è la sorpresa di dover lavorare su di sé e non sul giardino da zappare, scavare, falciare: «Quasi fossi diventata io il giardino» (19).
C’è un inatteso potente richiamare ai suoi doveri chi ci sta intorno, un sottile apprendere che se aiutiamo gli altri a non scappare li aiutiamo a salvare la loro umanità. A un certo punto Pia prende un aiuto in casa. Una notte lui rientra ubriaco e lei lo rimprovera. Per sé certo, e per lui e per quel che è giusto fare e non fare. Un’altra creatura da curare e da cui essere curata. E del resto lei stessa si sta trasformando «Non sono più il giardiniere. Sono pianta tra le piante, anche di me bisogna prendersi cura» (160).
Pia Pera aveva così presente la mobilità del tutto. L’amore per la coltivazione di orto e giardino le aveva fatto trovare nella terra da curare il correlativo oggettivo di quello che lei chiamava impermanenza. Ogni elemento piccolo della natura cambia a causa di noi e senza di noi e noi cambiamo con lui. «La più effimera delle arti» aveva definito in un altro libro l’arte del coltivare orti e giardini. Vedere ogni essere senziente e averne cura in modo tale che possa prosperare senza che ogni altro essere senziente veda compromessa la sua possibilità di prosperare. È questo il compito del giardiniere. Del maestro? Dei genitori? Di ogni educatore? Della politica?
C’è nel libro anche l’immenso tema della buona morte, della vita che si sfinisce nel movimento sempre più difficile, nell’aiuto sempre più necessario. Nessuna dottrina, ogni pensiero filtrato al crivello fine delle esperienze ultime, esperienze belle, ogni amicizia che tiene, ogni telefonata che arriva (quanti capitoli iniziano con le parole «oggi è venuto», «oggi ha telefonato»), ed esperienze difficili, ogni abbandono e paura.
«Forse si arriva a rendersi conto che non importa quanto depauperata, questa vita è l’unica che abbiamo. E insorge il rammarico di privarsi dell’ultima finestra sul mondo, non importa quanto ridotta a pertugio, a buco della serratura» (158). C’è Dio, qua e là nelle pagine del libro. Un affiorare delle affermazioni su Dio nel corso della sua vita, un ripasso filosofico, la (teologica) diffidenza del cercare una salvezza nell’aldilà: «Dimenticarsi di pensare e vivere nella dimensione della salvezza significa lasciarsi trascinare dalla corrente» (74). Con intelligenza, ironia (arriva la carrozzina elettronica che lei chiama sedia elettrica), paura sì e però gratitudine sempre. Una rilettura che non finisce.
«Nuovi piedi camminano per il mio giardino / nuove mani rivoltano la zolla erbosa. / Un trovatore sopra l’olmo inganna la solitudine. / Nuovi bambini giocano sul prato / nuovi esseri, sfiniti riposano sotto il prato. / E tuttavia pensosa torna la primavera / e puntuale torna la neve» (Emily Dickinson, Poesia n. 99).