Francesco e le parabole / 2
Per scuotere gli uditori
Le parabole venivano dette per scuotere la gente», scrive il cardinale Martini nel volumetto Perché Gesù parlava in parabole (EDB, Bologna 1985, 46). Anche Francesco ama parlare in parabole, ovvero procede spesso per racconti: ne ho raccolti 120, li vado studiando (cf. Regno-att. 20,2017,639s) e mi sono convinto che il suo obiettivo è proprio quello che diceva Martini: scuotere gli uditori.
Le parabole venivano dette per scuotere la gente», scrive il cardinale Martini nel volumetto Perché Gesù parlava in parabole (EDB, Bologna 1985, 46). Anche Francesco ama parlare in parabole, ovvero procede spesso per racconti: ne ho raccolti 120, li vado studiando (cf. Regno-att. 20,2017,639s) e mi sono convinto che il suo obiettivo è proprio quello che diceva Martini: scuotere gli uditori.
«Ieri – ha raccontato nell’omelia di Pasqua dell’anno scorso – ho telefonato a un ragazzo con una malattia grave, un ragazzo colto, un ingegnere e parlando, per dare un segno di fede, gli ho detto: non ci sono spiegazioni per quello che succede a te; guarda Gesù in croce, Dio ha fatto questo col suo Figlio, e non c’è un’altra spiegazione. E lui mi ha risposto: “Sì, ma ha domandato al Figlio e il Figlio ha detto di sì; a me non è stato chiesto se volevo questo”. Questo ci commuove, a nessuno di noi viene chiesto: ma sei contento con quello che accade nel mondo, sei disposto a portare avanti questa croce? E la croce va avanti, e la fede in Gesù viene giù».
Da questa narrazione del papa dovrebbe venirci la scossa più forte: ci mette davanti al mistero e ci provoca ad avvertirlo. Nel mondo si ascolta spesso l’obiezione di chi si ribella all’obbedienza della fede dicendo: siamo chiamati senza essere interpellati. Ecco Francesco che ci invita a partire da lì con la nostra obbedienza: dall’accoglienza di quell’obiezione.
Racconti della bestemmia
e della perdita della fede
La parabola del malato che non ha potuto scegliere il papa l’ha narrata nel giorno di Pasqua, con un’omelia improvvisata dettata da quella telefonata del Sabato santo. Ha concluso con un appello a scommettere sulla nuda fede, che si addice a quel giorno nel quale la pietra della tomba non è ancora ribaltata e che è immagine dell’intera giornata terrena: «Ognuno di noi pensi ai problemi quotidiani, alle malattie che abbiamo vissuto o che qualcuno dei nostri parenti ha; pensiamo alle guerre, alle tragedie umane e, semplicemente, con voce umile, senza fiori, soli, davanti a Dio, davanti a noi diciamo: “Non so come va questo, ma sono sicuro che Cristo è risorto e io ho scommesso su questo”».
Altra parabola che dovrebbe scuoterci la trovo in un racconto della perdita della fede svolto da Francesco il 28 settembre 2015 in aereo, di rientro dagli USA: «Una donna mi ha detto: “Quando mia madre è venuta a sapere che avevano abusato di me, ha bestemmiato contro Dio, ha perso la fede ed è morta atea. Io comprendo quella donna. E Dio che è più buono di me la comprende. Perché quello che è stato distrutto era la sua propria carne, la carne di sua figlia. Non giudico qualcuno che non può perdonare. Prego e chiedo a Dio – perché Dio è un campione nel cercare una via verso la soluzione – chiedo che lo metta a posto”».
Indico una terza parabola che scuote, che chiamo del «malvagio vincente», proposta da Francesco nell’omelia feriale dell’8 ottobre 2015: «Perché a questo che è uno sfacciato, al quale non importa niente di Dio né degli altri, va bene tutto nella vita, e noi che vogliamo fare del bene abbiamo tanti problemi? Ho ricevuto una lettera di una mamma coraggiosa: quarant’anni, tre figli, il marito e il dramma di un tumore di quelli brutti. Ha scritto per chiedermi “perché mi accade questo”. A questi interrogativi viene in soccorso la parola di Dio. Nel passo di Malachia [liturgia di quel giorno; nda] si legge che “Il Signore porse l’orecchio e li ascoltò” (Ml 3,16). Infatti il Signore ascolta i nostri perché, sempre. E la sua memoria non viene meno per quelli che confidano in lui benché dicano: perché, perché, perché».
Dalla vanità dell’umano
alla scoperta della misericordia
Alle parabole della nuda fede il papa arriva attraverso due serie di racconti preparatori, che provo a chiamare «della vanità dell’umano» e della «scoperta del mistero della misericordia».
I racconti della vanità dell’umano sono tra i più frequenti in Bergoglio. Alcuni aggiornano al terzo millennio gli exempla tradizionali dei predicatori: la donna che confida nella sua bellezza e decide d’abortire per non metterla a rischio (11 gennaio 2017); l’investitore che si affida al «tesoro pericoloso» delle ricchezze: «Crolla la borsa e tu rimani senza niente» (20 giugno 2014); il «grande imprenditore» che «stava morendo e comprò una villa» (23 ottobre 2017): un aneddoto che ripropone la parabola evangelica del «ricco stolto» (Lc 12,19-31).
Appartiene a questo filone il tema ricorrente della cattiveria che sempre alligna nel cuore umano, persino nei bambini, tant’è che facilmente – ci ricorda il papa – oggi diventano bulli come un tempo davano addosso alla «mattocca» del villaggio (8 gennaio 2018). Una cattiveria che è simile a quella degli animali: «L’abbiamo visto all’Angelus della domenica, quando i due bambini hanno fatto uscire due colombe, è venuto un gabbiano e le ha uccise» (16 febbraio 2017).
Dalla sua predicazione narrativa Francesco non risulta affatto un buonista che alleggerisce i pesi e si fa esigente solo in materia sociale. Egli prende dal vescovo vietnamita Van Thuán la severissima distinzione che quell’eroico testimone di Cristo aveva appreso nella purificazione del carcere: «Il Signore gli aveva insegnato a distinguere tra le cose di Dio, alle quali si era dedicato quand’era in libertà, e Dio stesso, al quale si dedicava mentre era incarcerato» (2 giugno 2016).
In questo mondo
non c’è gloria compiuta
La progressiva purificazione alla quale viene chiamato ogni discepolo, in un’altra occasione Francesco la indica come «uscita da sé» e la descrive con la prova della cecità vissuta dal Cura Brochero, il prete argentino canonizzato nel 2016, che «si lasciò lavorare il cuore dalla misericordia di Dio» fino a mete inimmaginabili: «Egli, che sognava di morire galoppando, guadando qualche fiume della sierra per andare a dare l’unzione a qualche malato», fu invece «reso cieco» dalla lebbra e così arrivò infine a stringere in una decina di parole la sua avventura d’apostolo senza paura: «In questo mondo non c’è gloria compiuta e siamo pieni di miserie». Conclusione di Francesco, anch’egli missionario sognatore in gioventù e forse oggi tentato dal sogno di una grande riforma della Chiesa che deve apparirgli ogni giorno più ardua: «Molte volte le nostre cose rimangono a metà e, pertanto, uscire da se stessi è sempre una grazia. Ci viene concesso di “lasciare le cose” perché le benedica e le perfezioni il Signore. Questo ci permette di aprirci ai dolori e alle gioie dei nostri fratelli» (2 giugno 2016).
Van Thuán e il Cura Brochero sono dei consacrati, ma Francesco propone la via della spoliazione a ogni cristiano, anzi a ogni uomo. A nessuno infatti è negata la prova decisiva della morte, che rappresenta la spoliazione delle spoliazioni: «Mi viene alla memoria un vecchietto, un anziano, bravo, che diceva: io non ho paura della morte, ho un po’ di paura a vederla venire» (1 febbraio 2017). Qui Francesco non dice – come il predicatore classico – che è sbagliato avere quella paura, invita invece a metterla in conto: «Tutti abbiamo un po’ di paura per questa incertezza della morte».
Quando il vicino di letto
gli chiese la sputacchiera
Di quell’incertezza conviene approfittare, ci dice il discepolo d’Ignazio di Loyola inviato al terzo millennio che è padre Bergoglio: essa può indurci a chiudere gli occhi di fronte al mistero, ma può anche provocarci a spalancarli. Possibilità che Francesco ci presenta con la parabola del malato terminale, già persona colta, che si riduce a vivere per strada e infine vegeta in un ostello «chiuso nella sua amarezza», ma si scuote quando il vicino di letto «che stava peggio di lui» gli chiede di passargli la sputacchiera: «Quella richiesta gli aprì gli occhi e il cuore a un sentimento potentissimo di umanità» e quel «semplice atto di misericordia lo collegò con la misericordia infinita, ebbe il coraggio di aiutare l’altro e poi si lasciò aiutare: morì confessato e in pace» (2 giugno 2016).
Il cardinale Martini – dal quale sono partito – lamentava che oggi in Europa «non sappiamo creare nuove parabole». Anche se «dovremmo crearle», diceva. E argomentava che quell’incapacità dipende dal fatto che «la nostra esperienza di Dio è così poca» (Perché Gesù parlava in parabole, 106).
Dalla tenacia di Francesco nel creare parabole possiamo intuire due ricchezze di cui egli è portatore: la sua personale esperienza di Dio e la maggiore possibilità di narrarla sperimentata in patria. In Europa, la parola su Dio si è fatta rara e anche per questo era necessario che un araldo del Vangelo venisse a noi dalla fine del mondo.
«Signore non capisco»
è una bella preghiera
Ma il magistero narrativo di Francesco non comporta il rischio di fare incerto il messaggio e di non condurlo a punti fermi? Anche qui io credo sia utile il confronto con le parabole dei Vangeli: i discepoli appaiono spesso dubbiosi sull’insegnamento proposto dal rabbi di Galilea con le sue narrazioni di pastori, seminatori, fattori. «Gesù – scrive Martini a pagina 66 di quel testo magistrale – accetta che la gente per un po’ non capisca, che alcuni si pongano delle domande: per lui è più importante suscitare degli interrogativi che aprano il cuore a nuove domande e a nuove intuizioni».
Più volte nelle parabole bergogliane traspare qualcosa della preferenza di Francesco per un insegnamento che metta l’ascoltatore in ricerca. E se non troviamo subito la soluzione non è un dramma: «Signore non capisco» è «una bella preghiera», dice il 14 marzo 2016, dopo aver narrato cinque paraboliche disgrazie dell’umanità di oggi che ci lasciano senza risposta.
www.luigiaccattoli.it