Tempo di disobbedienza
Alcuni scritti hanno il dono di una limpida completezza. Anche se sono brevi (in questo caso, brevissimo) dicono tutto quello che di essenziale si può dire sull’argomento e chi viene dopo può solo approfondire, portare esempi, attualizzare, ma in qualche modo deve tornare a questi scritti come fondamento del proprio argomentare. Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria è uno.
C’è tutto quello che di fondamentale si può dire contro la pena di morte: la violazione di un diritto umano, la insuperabile contraddittorietà della norma che la permette, la sua inutilità come deterrente, la tragedia immorale dell’errore giudiziario cui non si può rimediare. Ed è uno scritto che ha anche il dono di una semplicità estrema per cui lo si ricorda, eccome.
Lo stesso è per il minuscolo scritto di don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù (Libreria editrice fiorentina, Firenze 2014). L’11 febbraio del 1965, nel giorno dell’anniversario dei Patti lateranensi, un gruppo che si firma «i cappellani militari in congedo della Toscana», ma in realtà è solo una piccola parte di loro, vota in assemblea un comunicato in cui «tributano il loro riverente e fraterno omaggio a tutti i caduti per l’Italia», auspicano «che abbia termine, finalmente, in nome di Dio, ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale di Patria» e concludono dicendo che «considerano un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza”» che, «estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà».
Secondo l’indagine di Giorgio Peyrot, che don Milani citerà nella Lettera ai giudici scritta dopo la sua incriminazione, gli obiettori di coscienza condannati dopo la Liberazione erano nel 1965 circa 200 e la motivazione principale era la fede religiosa.
Don Milani risponde immediatamente ai cappellani.
Scrive che «paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori non sono argomenti» (11). La retorica vorrebbe nascondere la mancanza d’argomenti. Allora come oggi. Anche l’insulto lo vorrebbe fare, però l’insulto in aggiunta spesso rivela in più qualcosa di profondo e don Milani lo dice ai cappellani militari: è come se «l’eroica coerenza cristiana» degli obiettori di coscienza bruciasse dentro di loro «una qualche incertezza interiore» (11). Guardatevi dentro, vuol dire don Milani. Perché chi insulta si fa scudo dell’offesa per nascondere a se stesso la propria debolezza.
Scrive poi don Milani che non intende discutere «l’idea di Patria in sé» (12). Perché in sé l’idea di Patria divide, porta a pensare, come fanno i cappellani militari, che «italiani e stranieri possano lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda». Si può obiettare che dipende. Se si tratti di guerra di offesa o di difesa. Ma l’excursus che don Milani compie sulle guerre degli ultimi due secoli è senza appello. Le «nostre» guerre sono state soprattutto guerre d’offesa, di conquista, a volte addirittura di tradimento. La storia qualcosa ci racconta.
«Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri». Per sempre, vien da dire. Questo è il posto dei cristiani per sempre. Con gli oppressi. E anche, laicamente, il posto di chi è al servizio della Costituzione almeno finché non siano stati rimossi gli ostacoli che impediscono l’uguaglianza reale dei cittadini (cf. articolo 3).
I soldati delle nostre guerre, scrive ancora don Milani, «sono stati trasformati in aggressori dall’obbedienza militare» (19). Nessuna condanna. Ma nemmeno per gli obiettori deve esserci condanna, almeno non quella di essere vili. Pagano con la prigione. «Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene!» (20).
Non si può dire né meglio né diversamente.
Questo scritto di don Milani è definitivo nel ricordare che sia laicamente sia cristianamente l’obbedienza non giustifica mai da sola la nostra azione responsabile.
«Badate che l’opinione pubblica oggi è più matura che in altri tempi», scrive a un certo punto don Milani. Oggi era il 1965. Oggi 2018 lo direbbe? Non lo sappiamo. L’obbedienza burocratica, l’obbedienza che nemmeno prova a usare i mezzi che la Costituzione ancora ci garantisce per resistere, è in sé male se va a opprimere le persone.
Il tempo in cui la retorica e gli insulti fanno ammalare la vita civile e politica è sempre il tempo giusto per esercitare la resistenza, anche quella dell’obiezione attraverso forme di disobbedienza civica resa possibile dall’applicazione delle diverse forme di autonomia che la legge prevede per gli enti (i Comuni ad esempio) e le istituzioni. La disobbedienza civica può essere un vero servizio all’amministrazione quando questa nell’ansia dell’adempimento dimentica che la sua unica ragione di esistere è il bene comune.