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Attualità
Attualità, 2/2017, pag. 38

Teologia dei Piccoli indiani

Mariapia Veladiano

Lettura quasi teologica di Dieci piccoli indiani di Agatha Christie (Mondadori, Milano 1982). È possibile? Proviamo. Un poco un gioco questa lettura, come la filastrocca dei Dieci piccoli indiani che scandisce il ritmo delle morti. Ma la filastrocca si chiude sul verso «e poi non rimase nessuno» ed è proprio così, la fede ce lo dice. Siamo tutti colpevoli e se ci mettiamo al posto di Dio, alla fine proprio nessuno rimane vivo.

 

Lettura quasi teologica di Dieci piccoli indiani di Agatha Christie (Mondadori, Milano 1982). È possibile? Proviamo.

Intanto questo breve giallo lo si può leggere e rileggere e ancora rileggere. Ogni volta che giocando con i canali della TV s’inciampa in un frammento di film tratto dall’opera di Agatha Christie (sono state realizzate almeno 5 versioni cinematografiche e varie televisive) si ha l’impulso di riprenderlo in mano e di godersi ancora una volta le straordinarie pagine iniziali che raccontano il confluire inesorabile dei protagonisti verso Nigger Island, isola che in modo oscuro promette lavoro, o vacanza, o relazioni, e invece no, quel che i dieci incontreranno è il luogo del giudizio.

Tutti devono arrivarci in barca e questo è un riferimento mitologico più che teologico, e l’acqua giocherà il suo ruolo per tutto il tempo della storia. L’acqua che permette loro di raggiungere il paradiso immaginato, impedirà poi ogni salvezza. Perché nessuno più arriverà a riportarli indietro e dall’acqua della colpa non ci si salva da soli.

Perché sappiamo subito che sono tutti colpevoli di quel che viene loro imputato. La Voce registrata è costruita in modo da essere il contrario, l’esatto opposto della voce di Dio che sul Giordano, acqua della vita, dal cielo aperto riconosce che il tempo del Regno è arrivato.

È invece qui la Voce metallica e chiusa di un contabile delle colpe, minutamente elencate con nome e cognome del colpevole e nome e cognome delle vittime. Pronto a ricominciare all’infinito appena la puntina sfiora il disco. Non c’è la pazienza divina che lascia crescere il buon seme e la zizzania, c’è il verdetto già pronunciato e la condanna già scritta.

Non esiste nemmeno il nemico della parabola, in Dieci piccoli indiani. Il male non viene seminato da nessuno, è tutto nel cuore degli uomini e delle donne di Nigger Island, un campione democratico di umanità, giovani, vecchi, religiosi, avventurieri, uomini di legge. Tutti hanno in qualche misura scelto di essere orrendi. Il male non arriva nemmeno per caso. Il male è commesso.

Quando muore il primo ospite, Anthony James Marston, colpevole di aver causato con la sua guida spericolata la morte dei piccoli John e Lucy Combes, siamo indotti a pensare che sia giusto, si parte dal più colpevole, ha ucciso dei bambini per niente, per sciatteria, leggerezza, per essere così autocentrato da aver potuto leggere il male immenso della morte bambina come una «grossa seccatura» che ha comportato il ritiro della patente per sei mesi.

E niente ha imparato, dal momento che all’inizio della storia lo abbiamo già incontrato a guidare spericolato tanto quanto prima. Invece non è così, apprendiamo alla fine che «i rei della colpa più leggera dovevano essere eliminati per primi, senza conoscere la prolungata tensione e la paura che i colpevoli più a sangue freddo erano destinati a soffrire».

Marston era «un amorale, un pagano». Un irresponsabile, che agiva per impulso. Colpevole ma meno rispetto a chi aveva premeditato come il maggiordomo Thomas Rogers, o agito per interesse o gelosia ma sapendo il male che andava a compiere.

Un pagano, scrive Agatha Christie. C’è chi pagano non è proprio, fra i dieci. Emily Caroline Brent vive di Bibbia e ipocrisia. La sera dell’arrivo si trova fra le mani il versetto giusto delle Scritture: «Gli infedeli cadono nella trappola che hanno preparato, nella rete che loro stessi nascosero è preso il loro piede. Si riconosce il Signore dalla sua condanna. I malvagi saranno gettati nell’inferno».

Ma legge e non capisce. Guarda e non vede. Niente le muove il cuore. Morirà quasi ultima, perché, vien da pensare, ha peccato contro lo Spirito, ha giocato con la fede, l’ha usata come strumento di personale preservazione dal male e per questo ha potuto commettere un male orrendo, ha fatto morire una ragazza e il bambino che aspettava. Non ha riconosciuto la vita.

E il giudice Lawrence John Wargrave, il Giudice di tutti questi imputati? Il dio che punisce fin dove la legge non ha saputo o potuto punire? Il suo delitto, quello enunciato dalla Voce, non è un delitto, Edward Seton era colpevole e lui lo ha giudicato secondo giustizia, la giustizia del tempo. Alla fine morirà dopo aver perfettamente compiuto il suo piano. Colpevole di tutte le nove esecuzioni.

Morirà dopo essersi sostituito al dio giustiziere ma soprattutto dopo aver del tutto ceduto al male che è in lui. Peggiore di tutti perché, pur avendo saputo riconoscere la sua natura impastata di male (come quella di tutti gli uomini), l’ha assecondata fino alla fine. Era lui il signor U.N. Owen, il signor Nessuno.

Il contrario di Dio, colui che è, l’uomo che cede consapevolmente al male e se ne compiace e asseconda, fino a farne la trama di una tremenda perfezione, quest’uomo è Nessuno e muore con sulla fronte un segno di Caino fatto di polvere da sparo e sangue che al contrario di quello biblico lo consegna al suo inferno.

Un poco un gioco questa lettura quasi teologica, come la filastrocca dei Dieci piccoli indiani che scandisce il ritmo delle morti. Ma la filastrocca si chiude sul verso «e poi non rimase nessuno» ed è proprio così, la fede ce lo dice. Siamo tutti colpevoli e se ci mettiamo al posto di Dio, alla fine proprio nessuno rimane vivo.

Tipo Riletture
Tema Cultura e società
Area
Nazioni

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