In ascolto dei carcerati
e della «loro» libertà
So qualcosa delle carceri: da sei anni sono il presidente della giuria del Premio Castelli, che è un premio «letterario» per detenuti, che ha dietro la Società di San Vincenzo de’ Paoli. Carlo Castelli (1924-1998), vincenziano operoso, è stato un pioniere del volontariato carcerario. Del premio ho parlato in questa rubrica nei mesi di ottobre del 2014 e del 2016 (cf. Regno-att. 18,2016,575s).
So qualcosa delle carceri: da sei anni sono il presidente della giuria del Premio Castelli, che è un premio «letterario» per detenuti, che ha dietro la Società di San Vincenzo de’ Paoli. Carlo Castelli (1924-1998), vincenziano operoso, è stato un pioniere del volontariato carcerario. Del premio ho parlato in questa rubrica nei mesi di ottobre del 2014 e del 2016 (cf. Regno-att. 18,2016,575s).
La premiazione, seguita da un convegno, avviene sempre in un carcere diverso: quest’anno andiamo al Due Palazzi di Padova. Le nove precedenti edizioni ci avevano portato a Palermo, Poggioreale, Cagliari, Reggio Calabria, Forlì, Mantova, Bari, Bollate, Augusta. Ma la mia vera esperienza del carcere è nella lettura delle centinaia di «lavori» che i detenuti inviano alla giuria. Il tema di quest’anno era quello della libertà e nessuno ne sa quanto un abitatore delle carceri.
L’umanità rinchiusa palpita e scalpita
«Libertà perduta, libertà sperata: come riconquistarla?» era la formulazione del tema, che dev’essere risultata stimolante per le più varie situazioni vissute dai detenuti, dal momento che ha ottenuto un’ottima partecipazione rispetto alle nove precedenti edizioni del premio: abbiamo ricevuto oltre 200 testi tra narrativi, di riflessione e poetici, inviati da 196 concorrenti.
Uno dice libertà e l’anima di un carcerato palpita e scalpita. I partecipanti al concorso distinguono con impegno le facce della libertà: fisica, mentale, morale, spirituale, nel cuore, eccessiva, assoluta; ma anche individuale, sociale, altrui; e inconsapevole, sbagliata, dannosa, criminale, maledetta.
Parlano di «tempo della libertà» e di «sentire libero», di «nuova vita di persona libera», di «silenzio di libertà», di «respiro della libertà», di «pensare con il cuore in piena libertà», di «sogni liberi», di «libertà di non avere fantasmi». La ricchezza del lessico è la prima impressione riportata dalla lettura dei lavori. Un lessico lievitato dai sogni e dagli incubi più che dallo sfoglio dei dizionari.
La perdita della libertà – che è la stazione di partenza per la maggioranza dei lavori – induce a meditare sui rischi della stessa: «Servono le istruzioni per l’uso della libertà», scrive un concorrente. Ma quella perdita invita anche a meditare sul «coraggio di essere libero». Addirittura può aprire alla consapevolezza che tutti siamo «condannati a essere liberi».
Consapevolezza che altri esprimono in maniera più compiuta: «La libertà è grazia ma pure condanna». E che provoca a inedite conquiste interiori: «Ritengo di aver scoperto nella mia mente nuovi tipi di libertà». O spinge all’umiltà: «Chi pensa di averla [la libertà] non conosce la realtà». «Desidero riavere quella libertà che non so bene che cos’è».
L’anelito totale alla libertà, quale può essere avvertito con i due polmoni solo nella privazione, spinge a utopie scatenanti: «Sentirsi sconfinatamente liberi, sia noi sia gli altri». Su questa frontiera della libertà condivisa ecco un altro spunto costruttivo: «Educare alla libertà vuol dire avere e dare alcune regole affinché siano liberi anche gli altri». Il carcere – argomenta un concorrente riflessivo – dovrebbe aiutare a intendere «se sia conciliabile la libertà individuale, del singolo uomo, con quella sociale di tutti».
Mai stato libero come lo sono adesso
Può capitare che la condizione del carcere sia avvertita come portatrice di un qualche vantaggio sulla strada della libertà. «Sono più libero adesso, anche se può sembrare un paradosso, di quando mi illudevo di esserlo», leggiamo in uno dei lavori che la giuria ha inserito tra i «segnalati». Paradosso che un altro esprime con parole brevi: «Mi sento libero senza libertà».
Un terzo è ancora più rapido: «Libero d’essere prigioniero». Un quarto azzarda una variante aggressiva del paradosso: «Detto per satira, siamo quasi più liberi qua». Un quinto sentenzia: «In realtà sono già libero».
Leggendo testi siffatti noi della giuria non abbiamo potuto che scommettere sulla loro sincerità. «Mai avrei creduto di conquistare la libertà in carcere», scrive uno. E un secondo: «Mai stato libero come lo sono adesso».
Il paragone con il passato spinge allo spoglio delle illusioni vecchie e nuove: «Non avevo perso la libertà, non ne ero mai stato in possesso». «C’era una volta una donna che si chiamava libera ma libera non era». «All’esterno di queste mura non si è molto più liberi». Il concorrente al quale è andato il primo premio argomenta che la libertà non è l’immobilismo del carcere, «ma non è neppure la folle corsa del fuori».
Al paragone tra il dentro e il fuori, carico di pedagogie, si rifà anche il lavoro che ha avuto il secondo premio: «Da tempo, fuori, una parte di me pensava di fare un’altra vita. Ora tutto mi sembra quadrare. Finalmente sono libero».
Il carcere sollecita evasioni: «Vola mia dolce anima come il vento sopra il deserto», scrive un concorrente. Un volo quasi lo propone anche chi diffida delle possibilità dell’umano: «Per me chi è veramente libero sono gli uccelli, quel fiore: l’uomo no». Sulla strada della negazione non ci sono limiti: «Mi sto convincendo che la libertà non esiste». Un altro: «La ragione non ama la libertà». A uno dei concorrenti basta la domanda senza risposta: «Libertà, dove sei?».
Se sia possibile essere liberi dentro
«Libertà non è tanto avere un bene, il controllo e la manipolazione delle cose, quanto stare bene con se stessi, essere liberi dentro», afferma uno dei lavori «segnalati». «La vera libertà è solo nei pensieri di una persona», scrive un altro. E un terzo: «L’unica libertà è quella del pensiero». «Il mio pensiero è libero: almeno in questo ho l’esclusiva assoluta», argomenta un quarto. Un quinto: «La libertà sta dentro di noi». Un sesto: «Il cemento e il ferro non sanno che io sono libero». Un settimo: «Oggi queste sbarre sono di ferro ma io sono libero». Un ottavo: «L’importante è essere liberi dentro».
Noi otto della giuria siamo stati sorpresi dalla frequenza – nei lavori che abbiamo esaminato – dell’espressione «liberi dentro», che diventa in alcuni testi un motto, quasi una bandiera, tanto da essere formulata – in un caso – senza stacco tra i due termini, facendone una parola nuova; ed è il caso del lavoro che ha avuto il primo premio: «Dopo aver detto e letto dentro di me la verità di tutto, stranamente, mi sento diversamente libero: liberodentro».
La libertà interiore cercata o rivendicata, qualche volta brandita in faccia alle altre libertà e a rivincita contro le libertà altrui, viene a essere concepita come prossima al carcerato e sua amica, in quanto essa appare legata alla povertà di tutto il resto. Quasi figlia di quella povertà. Ne viene un ragionamento parabolico quale potrebbe svolgere un monaco o una monaca: «Solo quando non si ha nulla da perdere, allora sì che si è assolutamente liberi», scrive uno dei concorrenti.
La vita è venuta contro la mia libertà
Un altro si avventura, con ispirazione simile, sulla strada di una spoliazione che pare a un tempo imposta e accettata: «L’unica cosa che queste mura non potranno togliermi mai: i sogni, la parola di pensiero». Un terzo: «Non possedere nulla ed essere liberi». Via ardua, argomenta un quarto, ma possibile se realizzi la prima delle libertà, che è la «libertà da te stesso».
La liberazione da sé è al centro del lavoro che ha avuto il terzo premio, di cui è autore un omicida che non era ricercato e che si è costituito diciassette anni dopo il delitto, divenuto consapevole che solo nella verità avrebbe potuto ritrovare – o conquistare – una «vera libertà», perché essa è innanzitutto «libertà da sé stessi».
C’è anche la parificazione della libertà alla vita: «Dai un prezzo alla tua libertà e alla tua vita». «Perdere tanti anni della libertà». «La libertà è paragonabile alla vita». «Libero di vivere». Né poteva mancare il rovesciamento di quella parificazione: «La vita è venuta contro la mia libertà». Ed ecco il rovescio del rovesciamento: «Cammino contro la mia libertà».
Come giuria, giunti al termine del nostro lavoro di ascolto abbiamo avuto l’impressione che frequente sia, nelle carceri, accanto alla giusta sete di libertà anche la consapevolezza – almeno germinale – della fatica necessaria a sperarla contro ogni speranza e del cammino pur lungo che può condurre a riconquistarla. Una consapevolezza che ci è parsa più diffusa di quanto ci aspettassimo.
A noi giurati dispiace di disporre solo di tre premi e di dieci segnalazioni: premiati e segnalati vengono poi pubblicati in volume e di essi dà notizia il sito del Premio Castelli. Vorremmo onorarli tutti di un massimo di attenzione, i lavori che ci arrivano, e non è piccola la sofferenza di non poterlo fare, simile a quella di chi vede tante mani che chiedono e può riempirne solo tre, o dieci.
Diamo udienza alla gente più scontenta del mondo
Le settimane in cui leggo le centinaia di lavori partecipanti al concorso mi immedesimo nel Pirandello della novella La tragedia di un personaggio (1911) che confessa disarmato: «È mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle. Cinque ore, dalle otto alle tredici. Non so perché, di solito accorre a queste mie udienze la gente più scontenta del mondo».
Quella dello scrittore in ascolto dei personaggi è anche l’esperienza di noi giurati. Tra i concorrenti ci sono omicidi, spacciatori, mafiosi, scafisti, bancarottieri, ladri a vita. In certe giornate la lettura sembra trascinarti nelle bolge di Dante dove un’umanità dolente e furente si fa parola. A volte t’accorgi che le pagine che stai scorrendo non avranno premi, ma le leggi con la stessa attenzione per non deludere chi è venuto a chiederti ascolto.
www.luigiaccattoli.it