Vivere il tempo: i pini di Villa Borghese
A volte capita di trovare metafore sul passare del tempo e sul senso dell'esistenza, attraverso l'osservazione della realtà circostante. Così per Simone Coronati i pini di Villa Borghese attestavano una placida immobilità. Nella vita capita d’essere felici a motivo di una profonda pace interiore che ci pervade. È una felicità priva del sigillo dell’incontro. Si è pieni, ma si è soli. Anzi, si è pieni proprio perché si è soli. Quella gioia ammicca alla divina indifferenza. In ciò trova la propria grandezza e il proprio limite. I pini che distendono i loro rami a decine di metri al di sopra dell’osservatore sono un simbolo di tale felicità.
Simone Coronati, quando giungeva in qualche città per lavoro, cercava di prendersi un po’ di tempo. Non sempre gli riusciva ma, se poteva, s’avviava a piedi, senza preoccuparsi dei dettagli. Gli bastava giungere in zona, non di fare il percorso più breve. Anzi, seguire un itinerario un po’ tortuoso, accorgersi di aver sbagliato e tornare sui propri passi faceva parte del gioco. Quei momenti erano destinati soprattutto a osservare: nomi delle strade, case, portoni, passanti. Attuava quello che è precluso quando si ha fretta. Guardava la realtà con quel distacco sufficiente a sollevare qualche interrogativo su di sé e sugli altri.
Era in queste circostanze che Simone avvertiva in modo particolare il susseguirsi delle stagioni. Per il suo modo di vivere, esse non erano legate alla campagna, alla collina o alla montagna e tanto meno ai paesi di mare gremiti d’estate e desolati d’inverno. Il contrassegno del ciclo stagionale erano da un lato i viali, i giardini e i muri con i rampicanti e dall’altro il suo corpo che aveva caldo o freddo, avvertiva l’umido o il vento secco, la spossatezza o l’irrigidimento. In lui c’era però un interno più intimo di quello corporeo: coglieva il passaggio delle stagioni attraverso l’anima.
Mentre nel tardo autunno i piedi calpestavano le foglie fradicie, o nel maggio odoroso le narici avvertivano un misto di profumi e di scarichi d’auto, i suoi pensieri si rivolgevano, immancabilmente, allo scorrere del tempo. A indurre la sua mente a solcare e risolcare queste strade interiori non erano solo il buio di dicembre o l’ostinato baluginare del crepuscolo estivo: in qualsiasi stagione quei frammenti di natura inseriti nel contesto urbano lo portavano a riflettere sulla presenza di un ciclo ininterrotto di rinascite e morti.
Con il passare del tempo (è il caso di dirlo!) il suo sguardo era diventato sintetico: quando vedeva erompere, improvvise, le gemme dal ramo secco pensava all’accartocciarsi delle foglie, i fiori gli richiamavano i frutti e, viceversa, il verde tenero dell’erba appena spuntata gli faceva già percepire l’odore del fieno.
Un giorno lesse in un libro un’annotazione di stampo autobiografico colta da un’angolatura opposta alla sua. Si trattava di un uomo, vissuto quasi sempre in città, che i casi della vita avevano portato ad abitare in campagna. Lì il suo animo era stato invaso dall’inesorabilità del ciclo stagionale: «Ai campi esausti, sfatti dalla fatica estiva, succedono le interminabili nebbie dell’autunno, e a questo il gelo grigio dell’inverno, e a questo il cieco e subito finito espandersi ovunque delle fioriture primaverili. Questo alternarsi è il ritorno, passivamente da subire, del sempre identico che si consuma per rigenerarsi e si rigenera per consumarsi».
Finito di leggere queste righe, Simone pensò: «È un uomo che se la piglia con il tempo perché ragiona, nei confronti di se stesso, come se per lui il gioco fosse diverso, come se fosse umanamente possibile attingere al definitivo; per lui è perciò inevitabile patire ogni ritorno come uno scacco».
Accettare il ciclo, cogliere l’istante
Progressivamente l’occhio di Simone si volse sempre di più verso l’interiorità. A poco a poco le sue camminate non lo condussero più a osservare quanto gli stava attorno. Scrutandosi gli era sembrato di capire che pure la sua esistenza era vincolata a regole non molto diverse da quelle degli alberi. Certo l’alternarsi era più irregolare. I tempi della vita umana non sono rigidamente prefissati: una stagione può durare pochi giorni o estendersi per lustri.
Tuttavia, anche se lunga decenni, ogni fase del vivere andrà, con certezza, incontro al proprio termine. Anzi così capiterà di sicuro anche alla vita stessa. E dopo? Per noi tutto finisce senza più rinascere? Coronati si era portato dentro a lungo questa domanda, senza trovarvi risposta. La prospettiva si complicò quando la legò a un altro interrogativo simmetrico al precedente: e prima? Colse allora che la fatica del vivere era giustificata dal suo essere un passaggio da un prima a un dopo destinato, a propria volta, a diventare un prima. Comprese che, in base alla nostra natura, non avevamo alcun diritto di chiamarci fuori dal ciclo.
Un giorno lo sguardo gli cadde su una locandina. Un centro buddhista avvertiva di una prossima conversazione intitolata: «Dal samsara al nirvana». A lungo aveva considerato il «pellegrinaggio in Oriente» solo una moda culturale.
Adesso, però, gli pareva necessario meditarci sopra. Era tramontato il tempo in cui tutto poteva essere risolto con una scrollata di spalle. Non aveva certo intenzione di diventare buddhista. Anzi, non sarebbe andato neppure ad ascoltare la conversazione. Eppure, mentre sentì una foglia secca stritolarsi dolcemente sotto i piedi, comprese che, da allora in poi, i suoi pensieri si sarebbero mossi anche in quella direzione.
Pur non restando insensibile a qualche suggestione – o forse provocazione – che giungeva dall’Oriente, Simone ebbe un’esperienza che lo portò a volgersi dall’idea del ciclo a quella dell’istante. Comprese che l’atto di fruire come immobile quanto in se stesso è fase di un processo, equivale a porre nel proprio animo il sigillo della pace. Allora si è di fronte al cessare di ciò che per necessità mai si arresta: è illusione o trasfigurazione? Il ciclo esprime la legge che mira a creare amicizia tra il vecchio e il nuovo: l’estate diverrà inverno e l’inverno estate.
Alle nostre latitudini il susseguirsi delle stagioni è il segno più esistenzialmente vissuto del tempo circolare. Alla legge del riproporsi del gelo e del caldo, dei fiori e dei frutti è però preclusa la fruizione del tempo sospeso. Se guardo al ciclo, non vivo l’attimo. L’incanto però è racchiuso proprio nell’istante che ci è concesso di cogliere come tale anche se, in realtà, è solo un momento di passaggio che viene da altro per lasciare a sua volta posto ad altro.
Felicità distaccata e partecipe
Simone capitò a Roma e si trovò (o forse si ritrovò) a Villa Borghese; un luogo che conosceva bene, tuttavia anche il noto, ogni tanto, riserva sorprese. Quel giorno s’accorse, in modo nuovo, di quel che già sapeva. Comprese, in maniera repentina, quanto alti, svettanti e secolari fossero alcuni pini di quel parco grande come una cittadina. Capì che i loro ombrelli non sfidavano il cielo, lo abitavano. Ciò avveniva grazie a quei lunghi tronchi nudi che reggevano il superno espandersi dei rami e delle foglie («o, in questo caso, si deve parlare di aghi?»).
I pini attestavano una placida immobilità. Nella vita capita d’essere felici a motivo di una profonda pace interiore che ci pervade. È una felicità priva del sigillo dell’incontro. Si è pieni, ma si è soli. Anzi, si è pieni proprio perché si è soli. Quella gioia ammicca alla divina indifferenza. In ciò trova la propria grandezza e il proprio limite. I pini di Villa Borghese che distendono i loro rami a decine di metri al di sopra dell’osservatore sono un simbolo di tale felicità.
Molto più elevati del modesto colle su cui giace l’enorme palazzo del Quirinale, i pini hanno guardato dall’alto in basso il succedersi di papi, re, presidenti. Non si sono lasciati turbare da crisi di governo, scioglimento di Camere e consultazioni. Sono rimasti imperturbabili persino quando potenti bombardieri sganciarono, ormai più di settant’anni fa, i loro carichi di morte su alcuni quartieri della capitale: chi poteva avere interesse a colpire zone verdi? Come potrebbero ora, che sono più vecchi e alti, essere turbati da crisi finanziarie e politiche?
Come tutti i vegetali, neppure i pini sono tuttavia immortali. Una malattia può farli deperire; la mancanza di sapienti potature infiacchire. Di fronte a un’aggressiva sega che li assalisse, essi troverebbero difesa solo nella passività delle loro enormi dimensioni, le quali, però, non li metterebbero al sicuro di fronte allo scatenarsi di venti di eccezionale violenza. La loro relativa fragilità li rende un simbolo con cui ci si può umanamente confrontare; ipotesi preclusa se si trattasse di un picco roccioso che può terminare in una guglia ma non allargarsi in un ombrello verde e vivo.
La felicità sta forse nell’alta, tranquilla pienezza di chi si pone al di sopra di quanto passa, pur sapendo che passerà anche lui? Si trova forse nell’accettare la stabilità del passare simboleggiata da quei pini? Dire di sì è risposta alta almeno quanto lo sono quelle chiome che, nelle giornate di brezza leggera, danno serenità per il semplice fatto di osservarle.
Si tratta di una gioia che trova il proprio baricentro nella capacità di consegnare il relativo alla sfera che gli è propria. In ciò vi è del vero. Un ulteriore pensiero passò però nella mente di Simone: «Eppure… Eppure a quegli alberi e alla felicità di cui sono simbolo manca qualcosa: la capacità di curvarsi. L’alternativa più autentica sta nello scegliere tra l’atto di svettare e quello d’inclinarsi verso gli altri perché ci sia un incontro. Anche in questo caso capita di essere felici; ma ciò non ha mai luogo quando si è soli».