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«Il giorno della Pentecoste»

Pentecoste – Messa del giorno

At 2,1-11; Sal 103 (104); Rm 8,8-17; Gv 14,15-16.23b-26 

         In questa domenica si celebra la festa di Pentecoste e il Vangelo è lo stesso che abbiamo ascoltato due domeniche fa e al cui commento rimando. Ma che significa «Pentecoste»? Si tratta di un vocabolo greco che significa «cinquantesimo» e si riferisce al cinquantesimo giorno dopo la Pasqua.

         Nella prima lettura tratta dagli Atti degli apostoli si legge: «Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo» (At 2,1). Luca fa riferimento alla festa della Pentecoste ebraica, che ricorre il cinquantesimo giorno dopo Pesach (Pasqua in ebraico) e che viene anche chiamata Shavuot («settimane», indicando le sette settimane che intercorrono tra Pesach e Shavuot).

         In questa festa, secondo la tradizione giudaica già consolidata al tempo di Gesù, si celebrava, e si celebra tutt’oggi, il dono della Torah al Sinai. La festa, poi, come tutte le feste ebraiche, ha anche un legame con il ciclo della natura, in questo caso con la mietitura e il raccolto nei campi. È significativo, a questo proposito, il fatto che la liturgia ebraica in questa festa preveda la lettura del libro di Rut, un racconto ambientato proprio durante il tempo della mietitura e del raccolto, che vede come protagonista una donna straniera. Tutti questi elementi sono importanti per capire il testo di Luca e cosa avviene, secondo il suo racconto, proprio in questo giorno di Pentecoste.

         Ci può essere d’aiuto la descrizione che per esempio Filone fa dell’evento del Sinai. Filone è stato un importante studioso ebreo della diaspora, nato e vissuto ad Alessandria in Egitto (nasce circa nel 30 a.C e muore circa nel 45 d.C.), contemporaneo di Gesù e dei suoi discepoli. Ecco quanto scrive a commento di Es 19,16-19, in cui si descrive la teofania sul Sinai e, secondo la tradizione ebraica, il dono della Torah al popolo di Israele: «Risuonò come il soffio [pneuma] di una tromba [...] la fiamma divenne un discorso articolato nella lingua familiare all’uditorio».

         Inoltre in Es 20,18 si legge: «Tutto il popolo vedeva le voci» e il testo di Shemot Rabbah (V, 9) così spiega il versetto: «Rabbi Yoḥanan disse: la voce si manifestava e si divideva in settanta voci per settanta lingue, in modo che tutte le nazioni potessero comprendere. Ogni nazione udiva la voce nella propria lingua e le loro anime uscivano fuori». Fuoco, lingue e nazioni sono quindi tre elementi che caratterizzano l’evento del Sinai e il dono della Torah, un dono che ha fin dall’inizio un carattere universale, una destinazione che abbraccia tutti i popoli e nazioni.

         Il fatto poi che nella festa della Pentecoste ebraica (ovvero di Shavuot) si legga il rotolo di Rut, sottolinea ancora di più come ogni popolo è chiamato a far parte del dono della Torah. Rut, infatti, rappresenta nella storia del popolo ebraico la possibilità che uno straniero o una straniera possa non solo abbracciare la fede dei padri, ma diventare, com’è stato per questa donna moabita, addirittura una madre di Israele.

         A chi conosce bene le tradizioni ebraiche riguardanti l’evento del Sinai e il dono della Torah, quindi, la descrizione che Luca offre non può risultare che familiare e allo stesso tempo profondamente legata a quell’evento.

         Fuoco, vento, suono, lingue e nazioni sono tutti elementi che ricompaiono nel racconto di Luca: «Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. […] la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: “Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio”» (At 2,2-11).

         Ma di fatto, che cosa avviene di nuovo e che Luca racconta? Si tratta del dono di una nuova Torah? No, ma di un nuovo spirito per comprendere quella stessa Torah, di un nuovo senso di quella rivelazione che ha la sua unicità nell’unicità di colui che la dona. Il dono dello Spirito di cui Luca parla è la capacità di comprendere e vivere la Parola del Padre nella sequela del Figlio, pienezza e compimento di quella stessa Parola. Se il popolo ebraico ha ancora oggi una halakah (letteralmente «via o cammino» e si tratta di tutto il complesso di norme etiche e liturgiche) che lo aiuti a comprendere e osservare la Torah, anche il popolo cristiano ha la sua halakah: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Con il dono dello Spirito non c’è una nuova Torah, ma c’è una possibilità aperta a tutti di vivere secondo quella Torah nello spirito di Gesù, secondo il suo insegnamento, secondo il suo cuore.

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