Io credo
Ambivalenze della fede messianica
Nel secondo capitolo del libro del profeta Abacuc vi è un versetto destinato a riprese imprevedibili per il suo autore. Attraverso la lettura compiuta, dapprima da Paolo poi da Lutero, l’affermazione stando alla quale il giusto vive di fede è diventata uno dei grimaldelli in grado di scardinare interi assetti teologici ed ecclesiali (cf. Ab 2,4; Rm 1,17).
Tuttavia non sono prive di grandiose risonanze neppure le paradossali asserzioni poste subito prima della celebre sentenza. In quel passo ci si riferisce, nello specifico, a una visione priva di menzogna che attesta l’esistenza di una scadenza che, se anche indugia a venire, occorre ugualmente attendere in quanto giungerà senza tardare (cf. Ab 2,3).
Quello che è sempre dilazionato è percepito non tardivo solo se, allorché giunge, si presenta come una realtà tanto piena da far dimenticare la faticosa attesa precedente. Nell’esperienza umana ogni tanto capita qualcosa di simile: la gioia presente fa scordare il frustrante passato. Sono barlumi di una tensione coniugabile in modo più alto. Il brano di Abacuc apparve infatti predisposto a essere declinato in modo messianico.
Tornano in mente alcune incisive parole scritte da Paolo De Benedetti: «L’uomo biblico, e l’ebreo sempre, crede – non spera – che ciò che tarda avverrà».1 Affermazione influenzata assai più dall’Ani maamin («Io credo») ebraico che dal ricorso al versetto biblico presente nella tradizionale novena di Natale, quando si cantava: «Ecce apparebit Dominus, et non mentietur, si moram fecerit expecta eum quia veniet et non tardabit».2
Rivivere liturgicamente l’attesa di chi è già venuto è ben diverso da aspettare chi non è ancora apparso. Allorché si attende veramente una venuta, la si può vivere solo come imminente. Quando le prime comunità di credenti in Gesù Cristo invocavano Maràna tha (1Cor 16,22) non sperimentavano alcun senso di dilazione; pregavano così perché avvertivano prossima la comparsa del loro Signore.
Ani maamin costituisce l’espressione riassuntiva del penultimo dei 13 Principi di fede enunciati nel XII secolo da Mosè Maimonide. All’origine non si trattava di alcunché di paragonabile a un Credo inteso in senso cristiano: era semplicemente un commento al 10o capitolo del trattato Sanhedrin della Mishnah (codificazione canonica della Torah orale risalente al III secolo d.C.).
Con il trascorrere del tempo i Principi, però, hanno assunto sempre più una veste autonoma; in particolare il 13o è diventato espressione paradigmatica dell’attesa messianica. Nella sua veste originaria, il discorso di Maimonide tende soprattutto a mettere in guarda la comunità ebraica dall’indulgere a calcolare i tempi della fine. Non occorre ugualmente avere dubbi sulla venuta del Messia.3
Tuttavia quando, di generazione in generazione, i tempi si prolungano senza fine, l’insidia del dubbio tende a spostarsi dalla venuta all’attesa. L’apice della fedeltà sembra consistere nel semplice ripetere «io credo». La fede nel Messia rischia di occupare il posto riservato alla sua venuta.
Un nuovo nigun
Reb Azriel David Fastag era chazzan (cantore) presso una sinagoga chassidica di Varsavia. Tra le sue mura risuonavano i nigunim (canti religiosi eseguiti a gruppi) composti dal Modzitzer rebbe Shaul Yedidya Elazar Taub (1886-1947).4 Il rebbe rimase a capo della comunità fino al 1939, quando, avvertito dell’avanzata tedesca, fuggì per recarsi, in rapida successione, in Lituania, Russia, Giappone; da lì, attraversato il Pacifico, si spostò a San Francisco per giungere infine a New York. Nel 1940 era già a Brooklyn, luogo di residenza di numerosi ebrei ortodossi. Lì divenne popolare e ricostituì la comunità Modzitz.
A lui si attribuiscono più di un migliaio di melodie chassidiche. Morì il 27 novembre 1947, lo stesso giorno in cui le Nazioni Unite votarono la deliberazione che prevedeva in Palestina la costituzione di due stati, uno ebraico e uno arabo. Quella del rebbe fu l’ultima sepoltura effettuata nel 1948 nel grande cimitero del Monte degli Ulivi. Si avrebbe dovuto attendere la Guerra dei sei giorni (1967) perché il luogo tornasse in mano ebraica.
Reb Fastag restò invece a Varsavia. Nel 1942, al tempo della liquidazione del ghetto della città, fu costretto a salire su un treno diretto al campo di sterminio di Treblinka. Sul vagone un vecchio ebreo chiese al chazzan di cantargli il nigun che il Modzitzer rebbe era solito cantare a Yom Kippur: si trattava di una melodia capace di infondere nell’assemblea il trasporto mistico della devequt («adesione/attaccamento» riferito a Dio).
Apparvero invece davanti agli occhi della mente del Reb Azriel David le parole dell’Ani maamin: «Io credo con fede sincera nella venuta del Messia e se anche tarda attendilo». Improvvisò allora un nuovo nigun. I deportati del vagone si unirono al canto che, a poco a poco, si diffuse lungo tutto il treno. Allora Reb Fastag chiese silenzio e annunciò che avrebbe rinunciato alla metà della sua ricompensa celeste se qualcuno avesse fatto giungere la nuova melodia al rebbe Modzitzer a New York.
In quel contesto il desiderio sembrava irrealizzabile. Due giovani però riuscirono a fuggire; uno di essi fu raggiunto dalle raffiche delle guardie e morì, l’altro invece si salvò e, dopo molte traversie, giunse a Brooklyn. Ecco la ragione del perché ci è nota tanto la storia quanto il nigun, cantato fino a oggi.
Il canto che esprime la fede nella venuta del Messia è un sopravvissuto, un reduce, un superstite. Nel vagone piombato Reb Azriel David non propose un baratto tra una parte della sua beatitudine e la venuta del Messia; l’oggetto dello scambio era la possibilità che la melodia giungesse al maestro carismatico rifugiatosi nella Grande mela. Che il nigun arrivasse a destinazione fu miracoloso, ma fu pur sempre qualcosa d’infinitamente inferiore alla venuta del Messia.
Il canto, alzatosi dal treno di morte, non bastò a squarciare i cieli. Sarebbe empio sostenere che il figlio di Davide non venne perché quanto stava sommamente a cuore più della sua venuta era soprattutto salvare la melodia, simbolo della sussistenza della propria comunità. Non si va però lontano dal vero nel dichiarare che, per molte realtà religiose ebraiche e non ebraiche, la preoccupazione maggiore è di tutelare le proprie comunità di fede piuttosto che di credere a quel che la fede ci propone di credere: «Io credo con fede piena nella venuta del Messia».
Diverse letture messianiche?
La forma che si limita a riporre la fede in una realtà ancora da venire è comunque in grado di confutare le indebite pretese di una realizzazione che si proclama già raggiunta. Quando il «già» predomina sul «non ancora» a tal punto da occultare il senso dell’attesa, è fatale che la realtà presente si gonfi in maniera abnorme. In ambito israeliano le tendenze più percepibili in questa direzione si sono registrate all’interno del cosiddetto «messianismo territoriale».
Nel 1961 il Gran rabbinato d’Israele compose una preghiera, oggi recitata pressoché ovunque (diaspora compresa): «Padre nostro che sei nei cieli, roccia d’Israele e suo redentore, benedici Israele [inteso come stato; nda] inizio della fioritura della nostra redenzione». All’epoca della sua composizione lo stato aveva i confini stabiliti nel 1948. La fioritura era perciò molto limitata: tutti i luoghi biblici più importanti esulavano dal controllo israeliano.
Nel maggio del 1967, poche settimane prima dello scoppio della Guerra dei sei giorni, rav Zvi Yehudah Kook, figura fondamentale per lo sviluppo dell’ideologia del movimento fondamentalista Gush Emunim («Blocco dei fedeli»),5 pronunciò parole giudicate profetiche dai suoi seguaci: «“Hanno diviso la mia Terra”. Sì, è vero. Dov’è la nostra Hebron? (...) E dove sono Sichem (Nablis) e la nostra Gerico (...) Tutta la Transgiordania [l’attuale Cisgiordania; nda] è nostra».6 In sei giorni quei territori divennero effettivamente «nostri». Ci fu perciò chi lesse (e legge) in chiave messianica la guerra del 1967.
Non occorreva attendere la tragedia attuale per comprendere che è molto meglio affermare che il Messia tarda a venire (proclamazione dotata di senso solo se nel Messia ci si crede) che sostenere che in questo mondo irredento si stia già dispiegando una realtà messianica.
La tradizione di Maimonide, scrisse ormai più di trent’anni fa Avraham Burg, «afferma che non si deve sapere se si vive in un’età messianica fino a quando non venga effettivamente il Messia, fino ad allora non si devono mai affrontare problemi messianici».7 Un aiuto per muoversi in questa direzione sta anche nel continuare a recitare, senza diluizioni retoriche,8 Ani maamin.
1 P. De Benedetti, Ciò che tarda avverrà, Qiqajon, Comunità di Bose - Magnano (BI) 1992, 140.
2 «Ecco apparirà il Signore e non trarrà in inganno, se indugia attendilo perché verrà e non tarderà».
3 Cf. G. Laras, Mosè Maimonide. Il pensiero filosofico, Morcelliana, Brescia 1998, 229s.
4 Il nome deriva da Modrzyce, sobborgo della città di Deblin.
5 Emunim, la stessa radice di maamin e di amen.
6 Cit. in G. Kepel, La rivincita di Dio, Cristiani, ebrei e musulmani alla riconquista del mondo, Rizzoli, Milano 1991, 181.
7 Cf. The Jerusalem Report 16(1992) 1, 10.
8 Non esenti da una certa tendenza retorica sono le pagine di Elie Wiesel, «Ani maamin, Un canto perduto e ritrovato» in Id., Un ebreo oggi, Morcelliana, Brescia 1985, 229-277. Il testo fu musicato da Darius Milhaud (1892-1974) un anno prima della sua scomparsa.