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Attualità
Attualità, 20/2024, 22/11/2024, pag. 654

Il cuore di Dio

Dalla tradizione biblica a Dilexit nos

Piero Stefani

Fin dagli albori della filosofia sui modi di concepire Dio, o gli dèi, grava l’accusa di antropomorfismo. Già Senofane affermava che i mortali immaginano che le divinità abbiano vesti e fattezze simili alle loro, cosicché se buoi, cavalli e leoni avessero mani farebbero i corpi degli dèi simili ai propri; allo stesso modo gli etiopi li rappresentano neri e i traci con gli occhi azzurri e i capelli rossi. Le considerazioni avanzate dall’antico pensatore produssero un imprinting che il pensiero filosofico e la teologia che ne raccoglie i metodi hanno sviluppato nel corso dei secoli per giungere all’oggi post-teista.

La Bibbia, fin dalla sua prima pagina, rovescia il discorso; lo fa affermando che è l’adam (l’essere umano) a essere creato a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26). È la fede nell’atto creativo a consentire di attribuire a Dio fattezze e sentimenti umani senza che il convincimento costituisca una proiezione di noi stessi; la convinzione si presenta, invece, come una via per entrare in rapporto con lui. All’interno di questo orizzonte di fede e di pensiero diventa possibile parlare, da un lato, di mani, braccia, piedi, schiena, bocca di Dio e, dall’altro, mostrarsi consapevoli della natura simbolica e non già solo semplicemente metaforica di queste espressioni.

Ciò vale anche quando si assegna a Dio l’atto di parlare o lo si crede dotato di un cuore. Le due immagini, del resto, si congiungono nell’invito a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio (Gregorio Magno).1 

Le parole della Scrittura attribuiscono a Dio un cuore contraddistinto da tutto quanto è proprio del cuore umano. Seguendo la disposizione canonica dei libri, la prima attestazione riguarda un moto dell’animo che si rammarica di quello che ha fatto proprio perché ormai divenuto pienamente consapevole d’averlo compiuto. Il pentimento riguarda azioni, non più cancellabili, che ora non si sarebbe mai voluto compiere. Occorre riparare il riparabile non essendo nelle condizioni d’annullare quanto non è più annullabile.

La storia biblica del diluvio inizia in questa chiave: «E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo» (Gen 6,6). Allora il Signore decise di sommergere violentemente il mondo a motivo della violenza che lo dominava (cf. Gen 6,13). È un grumo di contraddizioni, da cui il Signore uscirà pentendosi del proprio pentimento.

Le cause della divina conversione alla nonviolenza sono esattamente le stesse che dapprima lo avevano indotto a scatenare la violenza: «Il Signore (…) disse in cuor suo: “Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché ogni intento del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza”» (Gen 8,21; cf. Gen 6,5). Il Signore, guardando nel profondo del proprio cuore, conosce la miseria del nostro.

Antropomorfismo o modello divino della povera grandezza di un cuore umano capace di pentirsi? Antropomorfismo o esempio divino per imparare a vivere (e non solo a sopravvivere) alla catastrofe?

Quando si procede lungo simili pensieri si è esposti a cadere in immagini di Dio troppo umane; eppure, nel contempo, esse non sono lontane da parole attribuite al Signore che, senza esitazione, accogliamo come vere: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11,8). Quello appena citato è un versetto collocato in un lungo discorso pronunciato in prima persona. Solo il Signore è in grado di parlare così. La via privilegiata per conoscere il cuore di Dio è e resta la parola della Scrittura.

Seguono, in Osea, frasi volte a contrassegnare una differenza irriducibile tra il divino e l’umano: «Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non un uomo; sono il Santo in mezzo a te» (Os 11,9). Siamo di nuovo di fronte tanto a un’esplicita rinuncia divina alla violenza, quanto all’implicita denuncia che gli esseri umani non sono in grado di conseguire da soli questo esito. Nel loro cuore vi è durezza.

La circoncisione del cuore

Nel cuore umano è impressa l’immagine del cuore divino, ma vi sono anche abbarbicati impulsi che si contrappongono a questa prossimità. La somiglianza con Dio sfocia nel desiderio da parte dell’essere umano di vedere mutato il proprio cuore: «Crea in me, o Dio, un cuore puro» (Sal 51,12). La profondità del nostro animo custodisce la speranza di diventare diverso da quanto ora è. La voce innalzata dalla creatura trova corrispondenza nella promessa profetica nella quale la purificazione diviene premessa a un cambiamento del cuore: «Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez 36,25s). 

La domanda rivolta al Signore e la promessa da lui compiuta, lungi dall’escluderli, implicano l’impegno e la concreta obbedienza al comando di Dio. La messa in pratica del precetto si prospetta come un punto di incontro tra il divino e l’umano. Ciò viene espresso in maniera particolare dalla formula imperativa che applica al cuore l’immagine derivata dal rito simbolo dell’alleanza: «Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato» (Dt 10,16); «Circoncidetevi per il Signore, circoncidete il vostro cuore» (Ger 4,4). A venir circonciso è il cuore, e non solo il prepuzio. La differenza è grande.

La circoncisione del cuore vale per maschi e femmine e soprattutto va praticata su se stessi. L’agire creaturale è imprescindibile. Tuttavia l’atto definitivo non spetta alla creatura, ma sempre e di nuovo alla promessa divina di rendere il cuore umano conforme a quello di Dio: «Il Signore, tuo Dio, circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza perché tu possa amare il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima e viva» (Dt 30,6). È opera del Signore circoncidere il duro cuore di pietra umano, per renderlo cuore di carne.

«Imparate da me»

L’enciclica di papa Francesco Dilexit nos ricorda (citando Giovanni Paolo II) che nei Vangeli, forse per una sola volta, Gesù parla direttamente del proprio cuore (cf. n. 202). Ciò avviene quando afferma: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,28-30).

Nel parlare colloquiale «imparate da me» non è segno di umiltà. L’imperativo di Gesù sembra sorretto da una motivazione paradossale, proprio in ciò è custodito il sigillo della verità. Nella Bibbia c’è un precedente. Anche colui che la tradizione ebraica qualifica, fino a oggi, nostro maestro fu «un uomo assai umile, più di qualunque altro sulla faccia della terra» (Nm 12,3).

Mosè si manifesta umile proprio quando il Signore afferma che il suo «servo» è l’unico con cui egli ha parlato «bocca a bocca» (Nm 12,8). A motivo della propria umiltà, Mosè intercede a favore di suo fratello Aronne e di sua sorella Maria, puniti dal Signore perché avevano rivendicato a se stessi un ruolo non di loro spettanza: «Dissero: il Signore ha forse parlato solo per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?» (Nm 12,2). Si è indotti ad applicare al comportamento di Mosè le folgoranti parole di C.S. Lewis secondo le quali essere umili non significa pensare poco di sé, bensì pensare poco a se stessi.

L’espressione «il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,30) è anch’essa ricca di risonanze paradossali. Secondo la logica consueta, si sarebbe più leggeri se non ci fosse alcun carico; si sarebbe più liberi se il giogo non gravasse sulle proprie spalle. Invece ci è chiesto di addossarci un giogo e un peso. Per gli stanchi e per gli oppressi Gesù impiega un’immagine sabbatica, parla infatti di riposo (anapausis, la traduzione «ristoro» non è felice).

Il comandamento del sabato (Es 20,8-11) contiene una duplice prescrizione; esso dapprima comanda di lavorare per sei giorni e in seguito ordina il riposo del settimo giorno. Il precetto individua nel riposo sabbatico il coronamento dell’operare. I due momenti sono collegati, tuttavia restano distinti: dapprima si lavora poi si entra nel riposo. In Gesù invece le due componenti si danno in contemporanea. Gli stanchi e gli oppressi prendono su di sé il giogo e proprio in ciò trovano il loro riposo. Avviene così perché Gesù dice loro: «Venite a me» (Mt 11,28). Il loro riposo è in Gesù. Imparate a essere anche voi miti e umili di cuore, e allora il vostro giogo coinciderà con il mio e troverete riposo perché: «Io vi riposerò (anaopayso ymas)» (Mt 11,28).

Vi sono pesi posti sulle spalle degli altri per volontà non già di Dio ma di uomini che ritengono di parlare in nome di Dio. Secondo Matteo, gli scribi e i farisei caricano gli altri di gravami opprimenti che si guardano bene dallo sfiorare in proprio anche solo con un dito (cf. Mt 23,4).

Per Gesù non è così. «Il mio giogo è dolce»; è quello che Gesù porta o quello che chiede ai discepoli di portare? È l’una e l’altra cosa. Lui non impone agli altri un peso che egli non porta in prima persona. A comprovarlo è il detto stesso di Gesù: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29).


1 Si tratta di una lettera scritta da Gregorio all’amico Teodoro: Gregorio Magno, Ep., IV, 31: PL 77, 706.

Tipo Parole delle religioni
Tema Teologia Ecumenismo - Dialogo interreligioso
Area
Nazioni

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