V. Bassan, Riavviare il sistema
Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarla
Autore di Ellissi, l’accurata newsletter sulla comunicazione digitale – leggendo la quale s’imparano sempre cose nuove – oggi il giornalista Valerio Bassan si cimenta nel suo primo libro che è allo stesso tempo una «storia di Internet» e un manifesto per cambiare il mondo digitale in cui siamo immersi e di cui non possiamo fare a meno.
Chiarelettere, Milano 2024, pp. 263, € 16,00.
Autore di Ellissi, l’accurata newsletter sulla comunicazione digitale – leggendo la quale s’imparano sempre cose nuove – oggi il giornalista Valerio Bassan si cimenta nel suo primo libro che è allo stesso tempo una «storia di Internet» e un manifesto per cambiare il mondo digitale in cui siamo immersi e di cui non possiamo fare a meno. L’interesse sta proprio qui, nel fatto cioè che la sua proposta non è quella di staccare la spina per un ritorno a un prima che non c’è più. Ma vuole far recuperare soggettività e relazione vera agli abitanti della Rete.
Scrivere la storia di uno strumento così recente, così pervasivo e allo stesso tempo così policentrico non è impresa facile. Bassan sfodera una copiosa letteratura di riferimento, mai noiosa, che dà forma a un corpus che ne evidenzia le caratteristiche principali, anche quelle che devono essere modificate.
Come il fatto che la Rete sia oggi d’esclusiva proprietà di privati (un passaggio sfuggito a tutti i legislatori) che paiono non essere sottoposti ad alcun controllo, con qualche rara eccezione che sta iniziando a manifestarsi.
Da approfondire sono i temi della «piattaformizzazione» (c. III), della «deumanizzazione» (c. IV) e della «gentrificazione» (c. V) di Internet, in particolare sotto l’aspetto della soggettività, forse quello più vicino alle riflessioni un po’ balbettanti che si stanno facendo anche in casa cattolica. Cito: il passaggio da «persone a utenti» fa sì che dobbiamo «esistere on-line e [che] dobbiamo costruirci una reputazione». Dobbiamo diventare «dei project manager di noi stessi. Come se stessimo parlando costantemente a un pubblico (…) cui rendere conto». Il peggio infatti che possa capitare è «essere ignorati» (140s).
Così «abbiamo sviluppato una sorta di iperself che i social hanno facilitato, alimentato e utilizzato per i propri scopi, facendoli passare per nostri». Al centro di queste «reti egocentriche» ci sono dei solitari «super-io» che agiscono per interessi personali (e delle piattaforme) più che per «bisogni sovraordinati di una comunità» (142). Il tutto perché solo così le piattaforme possono monetizzare (cf. anche Regno-att. 8,2023,219).
Che cosa si può fare? Innanzitutto un’azione collettiva. Bassan ne parla a p. 223, quando evoca un’«Alleanza democratica per la governance digitale», una sorta di COP28 della Rete. Un segnale in tal senso è venuto nel 2022, quando «70 partner internazionali hanno sottoscritto un manifesto intitolato Una dichiarazione per il futuro di Internet in cui affermano di voler “riconquistare la promessa originaria della Rete” come «un singolo sistema interconnesso di comunicazione per tutta l’umanità» (224). Il testo è stato firmato da Unione Europea, USA e Inghilterra ma non da Russia e Cina…
Poi vi sono delle azioni a livello micro che nell’insieme potrebbero dare spinta a questa «rivoluzione». Bassan individua 5 «principi trasformativi».
Il primo è passare da «creator a destroyer» (sovversivo sì, ma non violento). «Non significa per forza boicottare. Né tantomeno cancellarsi dalle piattaforme, cosa che raramente porta i risultati sperati. Significa rendersi conto che in quanto consumatori, abbiamo la facoltà di “scegliere meglio”: per esempio installando browser che mettono la nostra privacy al centro della loro value proposition»… Utopia per soli nerd? No, perché, dice Bassan, si possono semplicemente «usare le nostre presenze social per inviare messaggi che creino maggiore consapevolezza delle dinamiche commerciali più abusanti della Rete» (230).
Il secondo è far sì che le big tech diventino normal tech perché queste aziende, «pur mantenendo grandi dimensioni» non possano «più diventare grandi quanto Internet» (237). Ciò si potrà ottenere in 3 modi: «Garantendo la condivisione dei dati attraverso una maggiore interoperabilità tra i servizi; rendendo più trasparenti ed equi gli algoritmi che permettono lo sfruttamento di questi dati; e garantendo ai consumatori un controllo maggiore sulle informazioni che condividono» (238).
Il terzo è appunto la prima delle tre vie citate sopra: l’interoperabilità, intesa come lo scambio delle informazioni tra aziende (app, piattaforme ecc.) in modo che nessuna di esse possa «murare i nostri dati» al suo interno e «trarne il maggior profitto possibile».
Il quarto è far sì che i nostri dati non siano dei «giacimenti» dai quali le piattaforme estraggano a piacimento, ma «“serbatoi” personali (…) in cui nessuno può entrare se non siamo noi a volerlo» (249), così come vorrebbe l’ambizioso modello di Gaia-X, «nato su proposta della Commissione europea nel 2019» (250).
Infine il quinto è quello più ambizioso e li contiene tutti: guardare al futuro con un progetto inclusivo e costruttivo di società, con una «pro-topia» (253ss) che comprenda una visione più ampia della mera tecnologia. Essa potrà essere governata solo all’interno di un’ideale sociale, culturale e politico complessivo. Però occorre volerlo.
Maria Elisabetta Gandolfi