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Attualità
Attualità, 6/2023, 15/03/2023, pag. 202

L’I care di Abramo

La presenza dei giusti è insufficiente?

Piero Stefani

Di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, molti hanno sollevato la questione del perché non si è fatto abbastanza per evitare la guerra. Posti davanti a questo rammarico, ci si chiede come mai, oggi, non si evidenzino, per tempo, gli scenari delle prossime guerre da scongiurare. La preveggenza vale più del rimpianto.

Il nodo sta nella difficoltà di esercitarla. È arduo prevedere il futuro. Non meno problematico è, del resto, sapere come andranno a finire le guerre in corso.

Nella Bibbia ci sono due racconti mitici che pongono un soggetto di fronte a una catastrofe annunciata. In entrambi i casi il presupposto è che è stato Dio stesso a informare qualcuno della distruzione prossima ventura. La somiglianza delle situazioni, però, non fa che porre in rilievo la differenza delle reazioni.

Il primo caso è quello del silente Noè; il secondo quello del loquente Abramo.

La terra è corrotta e piena di violenza, Dio allora preannuncia a Noè l’intenzione di distruggerla; gli dà ordini molto precisi di come costruire l’arca, lo assicura che la sua alleanza sarà con lui e gli indica il modo d’introdurre nell’arca la sua famiglia e gli animali. Noè esegue senza dir motto (cf. Gen 6,13-22).

Quando ad Abramo fu preannunciata la punizione di Sodoma e Gomorra, la sua reazione fu ben diversa da quella del padre di Sem, Cam e Jafet; egli aprì un contenzioso e cercò d’evitare l’annientamento delle città corrotte.

La contesa di Abramo si poggia su due presupposti, entrambi radicati in Dio. Il primo è la dichiarazione del Signore di non voler tener nascoste le proprie intenzioni a colui che, sia il Nuovo Testamento (cf. Gc 2,23) sia il Corano (cf. 4,125), definiscono come suo amico. Come potrebbe il Signore essere amico di Abramo senza comunicargli questa confidenza preventiva? Il punto di partenza resta l’intenzione del Signore di svelare le proprie intenzioni (cf. Gen 18,17). Dio ha trovato un interlocutore.

Il secondo presupposto è la clausola connessa alla scelta del Signore di rendere Abramo una benedizione. Perché ciò si realizzi occorre che Abramo comandi ai suoi figli e ai suoi discendenti di custodire la via del Signore e d’agire con giustizia (zedaqah) e diritto (mishpat) (Gen 18,19). I due presupposti diverranno nelle mani di Abramo i mezzi per contendere con il Signore. 

Entra in scena anche un «forse». «Il grido di Sodoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere e vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui il grido è giunto fine a me; allora conoscerò se, invece, le cose stanno altrimenti»1 (Gen 18,20-21).

Confrontiamo tre gridi. Il primo è quello della voce del sangue di Abele che s’innalza al Signore dal suolo (cf. Gen 4,10). È un’accusa oggettiva. Qui è già avvenuto l’irreparabile. A gridare è il muto sangue della vittima. Il secondo grido si eleva da Sodoma e Gomorra. Il terzo è quello, soggettivo, alzato dai figli d’Israele nella loro schiavitù.

In questo caso si trattò di umane voci di lamento; non è detto che fossero rivolte a Dio, si afferma invece che il grido giunse a lui e che Dio conobbe e che si ricordò della sua alleanza (cf. Es 2,23-25).

Da quell’ascolto iniziò la liberazione. Né con il sangue di Abele né in Egitto ci fu bisogno di verifica; solo davanti a Sodoma il Signore scende. Ci troviamo in uno spazio intermedio posto tra l’oggettività del grido e la soggettività divina. Il Signore non ha ancora definitivamente deciso sul da farsi. Si dischiude un «forse». In quello spiraglio s’inserisce Abramo.

Il giusto si preoccupa degli altri

Di fronte a Sodoma, la prima voce è quella del Signore; al patriarca spetta unicamente il controcanto. Abramo s’appoggia, nell’ordine, sulla confidenza del Signore, sulla giustizia e sul diritto e, infine, sul «forse» legato alla discesa divina.

Il cuore del contenzioso è la scelta di prendersi cura di altri. Ad Abramo è applicabile il detto I care (quest’anno particolarmente risonante a motivo del centenario della nascita di don Milani). Questa valutazione indiscutibile apre, tuttavia, una serie di domande. L’«amico di Dio» si prende cura di chi? Degli abitanti empi di Sodoma e Gomorra? O dei giusti che abitano nel mezzo delle città corrotte? O del modo in cui il Signore stesso è tenuto a operare nel mondo?

La risposta è a scalare: Abramo si preoccupa degli empi perché prima lo fa dei giusti e si prende a cuore questi ultimi
a motivo della sua volontà di tutelare la giustizia e il diritto
divini; per questi motivi «stette ritto davanti al Signore» (Gen 18,22).

Si legge nel profeta Ezechiele che se l’empio si converte dalla sua condotta non morirà, mentre se il giusto muterà il suo comportamento ne pagherà le conseguenze. Questa è la rettitudine del Signore che «non gode della morte di chi muore» (Ez 18). Da un lato, perciò, chi è in piedi stia attento a non cadere (cf. 1Cor 10,12); dall’altro, chi è caduto si rialzi. La porta della conversione è aperta per tutti.

In questa prospettiva non c’è alcun I care del giusto nei riguardi dell’iniquo. Non così nel questionare di Abramo. «Lungi da te fare una cosa simile, far morire il giusto con l’empio, è una profanazione (radice chll) per te che il giusto sia come l’empio, il giudice (shofet) di tutta la terra non farà giustizia (mishpat)?» (Gen 18,25; traduzione mia). La giustizia invocata da Abramo per il giudice di tutta la terra non è quella, indicata da Ezechiele, in base alla quale l’empio che si converte (vale a dire che cessa di essere iniquo) vivrà.

Non siamo di fronte a una sentenza in base alla quale il colpevole è punito e la persona onesta salvaguardata. Non ci troviamo davanti a due piatti di una bilancia in perfetto equilibrio. In varie circostanze, l’equità apparirebbe già molto; per Abramo è invece poca cosa. La presenza del giusto impone infatti un’asimmetria: non è giusto che lo zaddiq (giusto) muoia con l’empio, ma, al contrario, è giusto che il colpevole viva a motivo della persona giusta che gli abita accanto.

Non solo occorre evitare di strappare il grano assieme alla zizzania (cf. Mt 13,24-30), bisogna altresì inculcare tanto nel cereale quanto nel mietitore l’assillo di prendersi a cuore l’erbaccia. Ciò è assurdo per le regole vigenti in natura, invece non lo è per l’animo umano quando tocca il vertice, alto e raro, delle sue potenzialità. Il giusto è, infatti, colui che si preoccupa degli altri.

Il mercanteggiamento di Abramo fa scendere la quota di giusti sufficienti a salvare Sodoma da 50 a 10. Fu un’insistenza gradita al Signore: «Da questo esempio (...) si impara che ci vuole ostinazione nella preghiera: l’ostinazione non offende Dio, ma al contrario gli piace» (Lutero).2

A Dio è sommamente gradito quando lo si importuna a favore di altri; anzi, in un certo senso, anche a vantaggio dell’Altro. Si tratta di un pensiero sfiorato anche da Ruperto di Deutz: «Da servo fedele [Abramo] consigliava il Signore come agire e come giudicare in modo da meritare la lode per i suoi giudizi (…) e non cercò la propria volontà fino al punto che, per quante preoccupazioni avesse per suo nipote Lot, tuttavia neppure lo nomina».3 

La catastrofe è inevitabile

I giusti sono sempre pochi. Abramo contende a lungo con il Signore e fa calare la quota richiesta. Si tratta però di un numero di giusti ancora troppo elevato. André Neher rimprovera Abramo di essersi fermato lì; lo accusa d’essere ritornato alla sua abitazione (cf. Gen18,33) invece di ritornare a Dio.4 Forse per questo l’esito della disputa non salva Sodoma.

Rispetto alla sua città, Firenze, Dante scende a un numero più basso, due; neppure essi però bastano. «Giusti son due, e non vi son intesi» (Inferno, VI,73). I loro nomi restano sconosciuti; la loro qualità è invece palesata in una chiosa del Boccaccio: si tratta di coloro che, all’interno della «città partita» (VI,61), guardano al bene comune e non già all’interesse della loro «setta». Sono pochi e non riconosciuti. Nulla, quindi, riuscirà a controbilanciare l’incendio dei cuori innescato dalla superbia, dall’invidia e dall’avarizia. 

La presenza dei giusti è salvezza per le collettività. Giusto è innanzitutto colui che individua e denuncia l’ingiustizia. Per farlo non guarda in faccia a nessuno, neppure si trattasse del Signore: «il giudice di tutta la terra non farà giustizia?».

Punire, vale a dire ripagare la violenza con la violenza, ha in sé un grumo di contraddizioni. Lo zaddiq tenta di scongiurare questo esito. Eppure Sodoma sarà devastata e Firenze cadrà in sfacelo.

La diuturna esperienza offertaci dalla storia non è la totale assenza di persone giuste; quel che, da sempre, ci è prospettato è la loro permanente scarsità e la conseguente incapacità d’impedire la catastrofe. I giusti manifestano tanto l’irrinunciabilità quanto l’insufficienza del loro I care. Un verbo, non a caso, pronunciato sempre in prima persona singolare.

Il giusto è una persona non autocentrata, costretta dalle circostanze ad attestare la propria insufficienza. Avvenne così anche per il patriarca «e Abramo ritornò alla sua abitazione». Eppure lui, a differenza di noi, sapeva con esattezza quale sarebbe stata la prossima catastrofe.

 

1 Mia resa espansiva dell’ebraico: we’im-lo ’eda‘ah.

2 Cit. in Genesi, a cura di U. Neri, Gribaudi, Torino 1986, 263.

3 Ivi, 261.

4 A. Neher, L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1983, 134.

 

Tipo Parole delle religioni
Tema Ecumenismo - Dialogo interreligioso
Area
Nazioni

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