Agli smarriti di cuore
Il senso di non vivere invano
«Dite agli smarriti di cuore: coraggio non temete» (Is 35,4).1 Le parole di Isaia sembrano scritte per il nostro tempo; ma forse sono state e saranno consone per ogni epoca. Per comprenderle occorre riservare qualche attenzione al termine «cuore». È una parola, a tutt’oggi, di uso metaforico molto diffuso; di solito, però, in accezioni distanti da quelle bibliche.
La cultura moderna ha reso comune la convinzione che il cuore sia il luogo dei sentimenti, dell’amore prima di tutto ma anche dell’odio, della gratitudine ma anche del suo opposto. La precomprensione rende non agevole cogliere il senso biblico della parola. Nel mondo greco «cuore» è, di norma, inteso come semplice organo corporeo; di contro, nella Bibbia gli usi traslati sono frequenti e molteplici.
I significati principali coprono l’area circoscrivibile con i termini di volontà-coscienza-intelletto (se così si potesse dire, la Bibbia è infatti «senza cervello», parola in essa del tutto assente). Nell’essere umano il cuore indica il sé profondo proprio di una coscienza sostenuta dall’intelligenza e dalla volontà.
Il 35o capitolo di Isaia costituisce una specie d’anticipazione di quanto sarà sviluppato in seguito (vale a dire nella parte del libro attribuito al cosiddetto «secondo Isaia»): la gioia per la rifioritura del deserto (vv. 1-2), la venuta di Dio e la sua ricompensa che scaccia ogni timore (vv. 3-4), l’acqua che sgorga dal deserto che guarisce ciechi, sordi, zoppi e muti (vv. 5-7), l’appianamento della strada chiamata via santa (vv. 8-9), infine il ritorno dei riscattati contraddistinto da gioia e felicità perché fuggiranno tristezza e pianto (v. 10; ritornello conclusivo ripreso in modo identico in Is 51,1).
Nel messaggio complessivo lo smarrimento viene sopraffatto dalla speranza.
Il termine ebraico per «smarriti» deriva da un verbo (mahar) che, oltre all’accezione legata a essere codardi, spauriti e timorosi, ha il significato d’essere veloci e precipitosi. La traduzione «smarriti di cuore» è sicuramente corretta, tuttavia in un certo senso l’espressione si potrebbe rendere anche con «precipitosi di mente». In determinante circostanze, lo smarrimento e lo scoraggiamento derivano da una mente-coscienza troppo propensa a giungere subito alle conclusioni, senza aver fatto prima la fatica di cercare, di sforzarsi di capire e di cogliere le possibilità nascoste.
Si afferma «tutto va male, tutto va a rotoli, non c’è più niente da fare», senza avere il coraggio del pensiero. Cercare di capire è un tormento condito dalla strana consolazione nata dalla consapevolezza d’aver compiuto quanto ci è chiesto dalla dignità umana.
A suo modo lo affermava già Qohelet: «Rivolsi il mio cuore a esplorare con saggezza su tutto quanto si compie sotto il sole. Si tratta di un brutto affare rifilato da Dio agli uomini perché vi si esauriscano» (Qo 1,13). Per gli esseri umani l’indagare è fatica inevitabile. Alla fine, però, anche la nobile via della ricerca si trasforma in vicolo cieco.
Nel versetto di Isaia il peso decisivo poggia su quel «dite» imperativo che, peraltro, non si sa bene a chi sia rivolto. Il comando viene da Dio, ma chi sono coloro a cui è affidato il compito di dire? L’indeterminatezza racchiude la difficoltà dell’atto di farci giungere «buone notizie».
Una voce che viene da fuori costituisce, comunque, sempre un annuncio. È una forma di «evangelo» che rompe il cerchio chiuso dei propri tentativi di comprendere la realtà. Non sempre è così. Nel loro affastellarsi, le notizie che giungono a noi da ogni dove rappresentano una specie di «antivangelo». Suscitano smarrimento. In questo contesto, quel «dite agli smarriti di cuore: non temete» risuona come il buon annuncio di una realtà futura diversa da quella presente. Per crederlo occorre una fede sostenuta dalla speranza e una speranza alimentata dalla fede.
Cuori spezzati
Non ci sono solo i cuori smarriti, ci sono anche quelli spezzati: «Vicino è il Signore agli spezzati di cuore / i frantumati di spirito salva» (Sal 34,19; cf. Sal 51,19; 147,3; Is 61,1). Che differenza c’è tra coloro che hanno il cuore smarrito e chi lo ha spezzato? Lasciando da parte riferimenti, peraltro pertinenti, legati al pentimento personale, si potrebbe liberamente affermare che si tratta di coloro che soffrono non per lo scacco derivato dall’incapacità di capire, ma per la volontà di fare in qualche modo proprio il dolore del mondo.
Il Signore è a loro vicino perché si serve di loro. Un parere rabbinico è, al riguardo, illuminante e consolante: «Rabbi Alexander disse: se un uomo mortale rompe del vasellame è una disgrazia, ma per Dio le cose stanno altrimenti. Infatti tutto il suo servizio è costituito da vasi rotti come è detto: “il Signore è vicino agli spezzati di cuore”» (Pesiqta de Rav Kahana, 158b).
Il cuore spezzato è antidoto allo smarrimento, ma lo è ancor di più seguire il cuore umile di Gesù: «imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete riposo per la vostra vita» (Mt 11,29). È un «riposo» (non «ristoro», il riferimento è al sabato – cf. Es 20,11) conseguito proprio perché si è preso su di sé il giogo dolce e leggero di Gesù, vale a dire il giogo da lui portato e che, per questo motivo, chiede anche ai suoi discepoli di portare (cf. per contro Mt 23,4).
Si è «stanchi e oppressi» (Mt 11,28) ma non se ne esce rinunciando al giogo; al contrario, bisogna prenderlo su di sé. Non è il riposo dopo la fatica, ma (come è detto in relazione allo Spirito Santo nella sequenza di Pentecoste) è il riposo nella fatica. È una condizione legata al convincimento profondo di aver compiuto una scelta dotata di senso.
Oggi, come conseguire questo riposo mentre sembra che si stia compiendo un lavoro di cui non si vedono i frutti? Davanti a noi si distendono coltri di nebbia; avvertiamo il timore che esse, in luogo di deserti prossimi a fiorire, nascondano baratri. Non ci sono scorciatoie. Il giogo leggero ma esigente è il riposo del cuore spezzato. È il contrario del cuore smarrito e distratto che, secondo la massima pascaliana, cerca un’illusoria via di uscita nel non pensare.2
È inevitabile che non si riesca a reggere sempre il peso del pensiero. Nella vita di ciascuno la distrazione chiede la sua parte; è decisivo che si tratti di una parte e non già del tutto. Il cuore spezzato e non smarrito è quello che, almeno ogni tanto, si pone in ascolto del dolore del mondo. Anche quando se ne ode soltanto una qualche eco, il suo suono è tale da trasformarsi in invito a evitare, oltre la distrazione, anche la violenza: «imparate da me che sono mite».
Uccidere è sempre un male, anche quando vi si è costretti
Chi ode il dolore del mondo sa che la mitezza e la nonviolenza non sono sempre nelle condizioni di prevalere sulla violenza. Ci sono circostanze, e quest’ultimo anno ne è ulteriore conferma, in cui si è costretti a essere ingiusti, vale a dire in cui si è obbligati a rispondere alla violenza con la violenza. Il cuore allora è chiamato a mantenersi spezzato e, in questo caso, anche penitente. Uccidere è sempre un male anche quando si è obbligati a farlo. L’accento, allora, non va posto sulla giustizia perché essa non c’è. Quanto il cuore, vale a dire la coscienza-intelletto-volontà, è chiamato a fare è il discernimento della costrizione: la violenza è davvero inevitabile?
Un problema tra i più gravi, come lo è la risposta. E quando la conclusione è «sì», il cuore è chiamato a spezzarsi: «Un cuore spezzato e affranto tu Dio non disprezzi» (Sal 51.19).
La mitezza non è la nonviolenza integrale, è l’antieroismo integrale. Rimane, però, da porsi la difficile domanda se una certa dose di eroismo, ossia di esaltazione per una vittoria raggiunta o almeno possibile, sia una componente inevitabile sul piano dell’efficienza pratica.
«Felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35,10). I verbi al futuro ci attestano, da un lato, quanto ci manca e dall’altro la non rassegnazione alla situazione presente.
Ha scritto Jürgen Moltmann: «Chi spera in Cristo non può più sopportare la situazione così com’è, ma comincia a soffrire sotto di essa, a contraddirla. Pace con Dio significa conflitto con il mondo, perché il pungolo del futuro promesso trafigge inesorabilmente la carne di ogni presente incompiuto».3
È il cuore spezzato, ma è anche il giogo leggero che da una parte ci convince di non aver vissuto e di non vivere invano, e dall’altra non ci ripara dal dolore, anzi lo suscita.
Nessun accadimento in quanto tale ci insegna qualcosa. Le prove di questa massima sono innumerevoli, pandemia compresa. Perché ci ha insegnato così poco? Perché vi è una spinta irrefrenabile a vivere come prima?
Perché a mutare il cuore non sono i fatti, ma i modi d’interpretarli. È la fatica del cuore spezzato, ma anche è il giogo posto sulle nostre spalle che diviene leggero perché ci dona quello che nessun altro ci può dare: il senso di non vivere invano.
Per sperare, però, occorre avere orecchi capaci di udire una voce che viene da fuori di noi: «Dite agli smarriti di cuore».
1 Riprendo parte della conversazione tenuta alla parrocchia di San Camillo de Lellis di Chieti il 23 novembre 2022.
2 «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici»: B. Pascal, Pensieri, n. 168.
3 Cit. in Un giorno una parola. Letture bibliche quotidiane per il 2022, Claudiana, Torino 2021, 275.