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Attualità
Attualità, 20/2022, 15/11/2022, pag. 613

Italia - Politica: i passi perduti

Le incertezze di Meloni e la fine del PD radicalizzano il paese

Gianfranco Brunelli

I primi passi del nuovo governo vanno verso la ripetizione del passato. Non vanno verso il futuro. Il che lascia intendere che questo governo non sia in grado di cominciare a risolvere, da destra, i problemi di fondo del nostro sistema politico.

Risolvere il passato?

Dopo le dichiarazioni caute e parziali sulla storia da cui proviene il suo partito – «non ho mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici. Per nessun regime, fascismo compreso» –, Giorgia Meloni ha rapidamente archiviato ogni argomento politico-culturale sul passato e ha velocemente virato verso una visione pragmatica della sua azione di governo, ispirata, tuttavia, al concetto di «nazione».

Tuttavia perché quel concetto, senza una sua precisa ridefinizione, rimane aperto al passato: il nazionalismo, che ha contrassegnato drammaticamente il secolo scorso. Quel passato si è manifestato come nazionalismo etnico, organico, piuttosto che come nazionalismo civico. Non sono né l’etnicità, né la geografia, e neppure la lingua come tali a definire un popolo, ma è la storia politica, la costruzione sociale e culturale positiva della cittadinanza.

Basterebbe il passato verso il quale dover fare ancora chiarezza per essere dubbiosi dell’esito della riforma della destra che Meloni ha detto di voler perseguire: una destra democratica e moderata; se non fosse che quel passato non è passato e oggi bussa nuovamente alla porta.

Lo aveva fatto all’inizio degli anni Novanta, quando, in nome del nazionalismo etnico, aggressivo ed esclusivo, scoppiò il conflitto tra serbi e croa-
ti in Bosnia e lo si vede ora nella drammatica ripresa del nazionalismo etnico quale elemento giustificativo nell’invasione russa dell’Ucraina. I problemi teorici sono talora drammaticamente pratici.

Sul piano dell’azione di governo, i primi atti del nuovo esecutivo sono state cose già viste nei precedenti governi di centro-destra e in particolare in quello «giallo-verde» di Salvini-Conte. Il peggior governo della storia repubblicana. Azioni modeste in sé, ma non senza effetti: un irrigidimento sulla politica dell’accoglienza dei migranti che ha assunto la strategia del respingimento selettivo e che ha provocato tuttavia un grave incidente diplomatico con la Francia; un provvedimento d’ordine pubblico sui rave party, dopo il caso Modena, che vuole dare l’immagine della fermezza, ma ha finito col mostrare lacune giuridiche; la reintegrazione dei medici no-vax che è equivalsa a un messaggio di smobilitazione dell’attenzione sull’evoluzione della pandemia.

Ora, con la legge di bilancio, verranno i temi del PNRR, del rincaro dell’energia, della tassazione e del cuneo fiscale, delle pensioni e del reddito di cittadinanza. Ma è la politica internazionale che ci mette in condizione di forza o di debolezza, che chiarisce l’identità di questo governo e la direzione che esso vuole fare assumere all’Italia.

Meloni ha ribadito con forza la nostra adesione alla NATO, ma ha prodotto il nostro isolamento in Europa. Se le due linee non si tengono convintamente assieme la «nazione» perde libertà e competitività, autorevolezza politica e capacità di sviluppo economico.

Il combinato disposto tra la necessità di crearsi un profilo internazionale rassicurante e credibile, che la porta a viaggiare e a non controllare l’esecutivo, e un eccesso di spazio politico lasciato a Salvini nel governo ha già in parte modificato il suo posizionamento politico. Nel consentire a Salvini di riprendere il proprio repertorio di slogan politici, che di fatto radicalizza la coalizione a destra, Giorgia Meloni apre sul versante opposto, quello di Forza Italia, lo spazio della vera o presunta moderazione.

Le due combinazioni tolgono spazio politico alla Meloni stessa, che più che guidare il governo sembra finita nella posizione di chi media e ri-media.

L’incerto futuro del PD

Dall’altra parte, nel campo del centro-sinistra, non va meglio. Soprattutto in casa del Partito democratico. Da un lato, non aver dato le dimissioni immediatamente dopo la sconfitta del 25 settembre ha posto Letta nella condizione peggiore: di fatto è un segretario dimissionario che non può e non sa decidere. Dall’altro il partito, che non ha assunto seriamente le ragioni della sconfitta elettorale, è politicamente fuorigioco di qui al congresso di marzo. Un tempo infinito.

Non stupisce che nei sondaggi oggi il PD venga dato al 16% e i 5Stelle al 17%. Letta si è posto nella condizione peggiore. Basta guardare il dibattito sulle candidature alla presidenza della Regione Lombardia e della Regione Lazio. In entrambe si ripete lo schema della non scelta delle alleanze che ha portato alla sconfitta alle elezioni politiche nazionali.

Da tempo il PD non sa più cos’è. Un partito a vocazione maggioritaria, che anela al proporzionale pur di non stare all’opposizione; un partito riformista che non può proporre riforme perché vincolato a una sinistra radicale (oggi convogliata dai 5Stelle); un partito di sinistra che vuole stare al governo, ma è allergico a fare i conti fino in fondo col proprio passato comunista e non accetta una svolta socialdemocratica.

Il tempo del governo Draghi era propizio per una inversione di tendenza decisiva in senso riformista. Serviva un segretario in grado di guidare (cioè di far fare delle scelte) il partito, di rispondere alla sola domanda che conta: qual è l’Italia che vogliamo? Quel segretario non è stato Letta. Ma potremmo dire che quel segretario non c’è mai stato. Il problema è interno al partito.

Tranne Renzi, nessun segretario è mai stato eletto in una vera competizione interna: tutti nominati all’unanimità e tutti regolarmente privi di forza e presto azzoppati. La parte ex comunista, preponderante a livello numerico e organizzativo, è interessata al partito, «la ditta», ultimo residuo leninista, e a governare nelle zone di tradizione rossa. Modello PCI emiliano anni Settanta. La minoranza ex democristiana è interessata al governo romano e s’accontenta di una remunerata subalternità interna. Questo è il «noi» del PD.

 La realtà è altrove. Il paese avrebbe bisogno di tre grandi assi: chiudere culturalmente e politicamente le questioni aperte del passato (fascismo e comunismo), efficienza istituzionale (una riforma del sistema politico) e un grande patto sociale tra i primi della classe e gli ultimi.

Se il problema del PD è il rientro di Articolo 1 e i posti da concedere alle correnti nei futuri organigrammi, il Partito democratico non serve. La vicenda della candidatura Moratti in Lombardia (un utile compromesso tra classi sociali legate allo sviluppo economico) dice non solo dell’attuale confusione del PD, ma anche che in quel partito il passato non passa. Anzi, il passato ha riconquistato il presente.

Letta aveva visto giusto quando aveva invocato il bipolarismo tra PD e Giorgia Meloni. Poi, confusamente, ha abbandonato l’ipotesi. I suoi, e con lui quelli dell’intero PD, sono stati i passi perduti dell’Ulivo e di una intera stagione di ipotesi riformatrici.

Il mancato successo della Meloni nel suo campo e la fine del PD spingono il sistema politico verso una radicalizzazione della vita politica sulle ali estreme: la Lega salviniana a destra e i 5Stelle a sinistra.

Si può essere preoccupati.

 

Gianfranco Brunelli

 

Tipo Articolo
Tema Politica
Area EUROPA
Nazioni

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