Messor lo frate Sole
Misura del tempo e cura delle creature
Nel primo capitolo della Genesi, il quarto giorno sono create due grandi fonti luminose nel firmamento per separare il giorno dalla notte, per stabilire le feste, i giorni e gli anni e per illuminare cielo e terra (Gen 1,16-19). Per leggere questi passi, il principio di non contraddizione va riposto nel cassetto. In caso contrario si rimarrebbe spiazzati dal constatare che la funzione dei due luminari è di dividere il giorno dalla notte, mentre in precedenza questa separazione era già stata annunciata per ben tre volte (Gen 1,5.8.13). Con tutto ciò rimane il fatto che la duplice, comune funzione attribuita alle sorgenti luminose maggiore e minore consiste, da un lato, nel misurare il tempo e, dall’altro, nel fare luce.
Tutti capiscono che la Genesi si riferisce al sole e alla luna, eppure il capitolo con il quale inizia la Bibbia parla in modo diretto unicamente delle stelle, mentre per i due astri che più influiscono sulla nostra terra evita di impiegare il nome più comune. Forse lo fa per sottolineare la loro funzione puramente strumentale e, di conseguenza, per desacralizzare il sole e la luna. La laicizzazione delle due fonti di luce, la maggiore e la minore, sfocia nel renderli mezzi per stabilire la data delle feste (mo‛adim), le quali sono espressioni peculiari delle società umane. Esse dipendono non dal sole e dalla luna, ma dal modo in cui le civiltà si servono degli astri per misurare il tempo sociale. Senza calendari non si danno festività, tuttavia il modo di conteggiare il tempo attraverso i moti del sole e della luna varia in base alle culture.1
Luce, calore, fecondità
Le ore di luce e di buio si allungano o si accorciano indipendentemente da quanto avviene sulla terra; la scelta di celebrare i solstizi è invece un portato della società umana. Lo stesso discorso vale per i pleniluni o la luna nuova. Non a caso il termine ebraico mo‛ed («festa») ha in sé l’idea di radunare. Il dettato della Genesi laicizza il sole e la luna ma lo fa per stabilire (soprattutto in virtù della luna, cf. Sir 43,6-8) feste dotate di un significato religioso. Sarebbe una contraddizione se in quei giorni speciali si celebrassero divinità solari e lunari, ma non lo è allorché nel primo plenilunio di primavera si fa memoria dell’esodo dall’Egitto, o quando la festa del Deus Sol invictus viene mutata nella solennità del Natale.
Per altri versi, il primo capitolo della Genesi continua a essere paradossale. Ciò è evidente nell’operazione riduzionista a cui sono sottoposti gli effetti del sole. Fatta salva la distinzione tra giorno e notte, la funzione delle due grandi fonti luminose è equiparata: esse servono per illuminare e contare. Entrambi gli astri sono pensati, per così dire, come corpi celesti freddi, una qualifica non consona al sole. La prima parte del Salmo 19 parla di cieli che narrano la gloria di Dio, del muto eppur celebrante linguaggio legato al succedersi del giorno e della notte, per rivolgersi infine al sole onde affermare che nulla si sottrae al suo calore. Per quanto i raggi solari a volte siano cocenti e distruttivi, resta indubitabile che senza quella fonte di energia la vita sulla terra semplicemente non sarebbe. Ciò era noto anche agli antichi.
La Genesi colloca già al terzo giorno la fecondità della terra a cui è comandato di produrre germogli, erba con seme e alberi da frutta secondo la loro specie. Si introducono, cioè, le condizioni perché il mondo vegetale sussista e si riproduca (non a caso si insiste sul seme e sulle specie) prima della comparsa del sole.
L’incongruenza appare una presa di distanza dall’idea secondo cui un’esplicita dipendenza della vita dal sole rischi di comportarne una divinizzazione. Operazione quest’ultima presente in maniera del tutto consapevole nell’universalistico Inno ad Aton legato alla riforma religiosa del faraone Eckhanaton: «La terra è nella tua mano / come tu li hai creati. / Se tu splendi essi vivono, / se tu tramonti essi muoiono: / tu sei la durata stessa della vita / e si vive di te».2
La Genesi sembra invece operare una netta separazione tra sole e vita. Dal canto suo il legame è recuperato, sia pure in modo indiretto, nel Discorso della montagna, testo che, non a caso, si occupa della pioggia mentre ignora la luna: «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli: egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,44s).
Il mondo umano è conflittuale. Il Vangelo, piuttosto che al raduno concorde delle feste, pensa all’esistenza scompensata di buoni e cattivi, di giusti e ingiusti; tuttavia lo fa per affermare che il Padre si prende cura degli uni e degli altri. A motivo di ciò Gesù invita i suoi discepoli a fare altrettanto. Sole e pioggia sono precondizioni perché si dia la vita che tutti ci accomuna. Da parte sua, il Discorso della montagna li propone sia come esempi della diretta cura divina nei confronti delle creature umane (il sole è suo) sia quali inviti ai discepoli di Gesù di conformarsi a quel tipo di premura. La giustizia ora si misura su questo fronte. Più che a lodare il Padre, in questi passi evangelici si è chiamati a imitarlo: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro» (Mt 5,48).
Il sole è signore e fratello
La lode è centrale nel più noto e caro scritto di Francesco di Assisi, Il Cantico di frate Sole.3 L’atto di lodare si incontra con quello della cura declinata sul solo versante della luce: «Laudato si’, mi’ Signore, cum tucte le Tue creature / spetialmente messor lo frate Sole, / lo quale è iorno et allumini noi per lui. / Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: / de Te, Altissimo, porta significatione». Francesco non si preoccupa di calendari. Il sole è giorno perché illumina e non già perché scandisce l’alternanza tra dì e notte.
Per comprendere il messaggio contenuto in questi versi è fondamentale tener conto della presenza di una complicazione: il sole è nel contempo «messor» («mio signore») e «fratello», l’accostamento paradossale è dovuto al fatto che una creatura («fratello») porta in se stessa la significazione dell’Altissimo. Per questo motivo non pare condivisibile l’ipotesi interpretativa che propone di estendere la «significazione» a tutte le creature, queste ultime vanno considerate infatti semplicemente fratelli o sorelle senza essere «messeri». Il sole è dotato di un esplicito significato simbolico («significazione»), tuttavia il centro del discorso batte ugualmente sul sole reale. L’astro diviene simbolo divino per l’azione compiuta dal Signore attraverso di esso: ci illumina (presente) mediante lui (il «per» qui ha un indiscutibile senso di «per mezzo»). Francesco loda il Signore attraverso il creato perché ignora la natura; per lui il sole è espressione di una diretta cura divina. A illuminarci è il Signore attraverso il «suo sole» che è «messor» e «frate» e non già, come in Dante, «lo ministro maggior de la natura» (Paradiso X,28).
Nelle tenebre c’è qualche luce; Francesco si riferisce al fuoco e non già alla luna. «Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu, / per lo quale ennallumini la nocte: /ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte». Il fuoco è un piccolo sole notturno (nel Cantico l’aggettivo «bello» è riservato unicamente al sole e al fuoco). In questi versi diviene palpabile l’accentuazione che attribuisce al Signore l’azione di illuminare. La luce emanata dal fuoco, a differenza di quella del sole e della luna, implica l’opera umana. Noi moderni siamo lontani dall’esperienza di un fuoco che serve quotidianamente a illuminare la notte. Ci colpisce perciò che Francesco non proponga alcun riferimento allo scaldare e al cuocere. Ciò avviene per somiglianza di quanto da lui cantato per l’azione del Signore compiuta attraverso il sole («illumini noi per lui»). Tommaso da Celano afferma che Francesco ebbe tanto riguardo per lucerne, lampade e candele da non volerle spegnere di sua mano in quanto, si aggiunge, simbolo della vita eterna.4
Secondo le testimonianze più antiche, Francesco dettò il Cantico di frate Sole quando la sua malattia agli occhi aveva raggiunto uno stadio tanto avanzato da impedirgli di reggere la vista tanto della luce diurna quanto dei bagliori del fuoco. Il santo doveva perciò stare al buio e con gli occhi fasciati.5 Nel Cantico l’accento è posto sulla materialità del sole e del fuoco visti attraverso il ricordo e l’immaginazione di chi si trova nell’oscurità. Sia pure in modo ipotetico, si potrebbe giungere a sostenere che Francesco esalta esclusivamente la componente luminosa proprio perché egli era ancora in grado di scaldarsi ai raggi del sole e di mangiare cibi cotti, mentre era ormai incapace di reggere la vista persino del fuoco. «Laudato si’ mi’ Signore» per quelli che sostengono «infirmitate et tribulatione».
1 In ambito biblico e più estesamente nell’ebraismo antico, il problema dei calendari fu complesso e articolato. Cf. P. Sacchi, «I due calendari», in Storia del secondo Tempio. Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., SEI, Torino 1994, 454-461.
2 Testi religiosi egizi, a cura di S. Donadoni, Garzanti, Milano 1997, 320.
3 La diffusa titolazione Cantico delle creature non è filologicamente corretta.
4 Tommaso da Celano, «Vita seconda» n. 165, in Fonti francescane 750.
5 Cf. «Leggenda perugina» n. 43, in Fonti francescane 1614-1615.