Per amore
Pur avendo in Cristo piena libertà
Siamo invitati a riflettere su un paio di versetti tratti dalla Lettera di Paolo a Filemone:* «Pur avendo in Cristo piena libertà di ordinarti ciò che è opportuno, in nome della carità piuttosto ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Gesù Cristo» (Fm 1,8-9).
Ci troviamo di fronte a un biglietto occasionale. Filemone è un credente in Gesù Cristo, è abbiente e possiede degli schiavi. Uno di loro, Onesimo, scappa e si rifugia presso Paolo che si trova in prigione, una specie di domicilio coatto, a Efeso (gli studi recenti tendono a smentire l’ipotesi secondo cui Paolo fosse a Roma).
In virtù dell’annuncio rivoltogli dall’apostolo, One-
simo diviene, a propria volta, credente. Con queste sue righe, Paolo rimanda a Filemone lo schiavo esortandolo ad accoglierlo come membro della sua Chiesa domestica.
Perché è stato scelto questo passo nel contesto di una giornata dedicata, prevalentemente, alla riflessione sulla politica?
La prima risposta, solo apparentemente ironica, è che ci confrontiamo con un biglietto di raccomandazione; una modalità tuttora presente nella società e nella sfera politica: coltivare una cerchia di amici (reali o semplicemente funzionali) fa parte delle regole del gioco. In realtà, a proposito di Filemone, quanto conta è sapere di che tipo di raccomandazione si tratti. Nel biglietto, infatti, si rovescia il senso consueto di questa prassi proprio perché se ne assumono alcune caratteristiche.
Il biglietto di raccomandazione
Allo schiavo fuggito si aprivano, in sostanza, quat-
tro possibilità: aggregarsi a una banda di ladri; nascondersi nei bassifondi di qualche città (confidando di non essere scoperto dai cacciatori di schiavi); trovare rifugio presso un tempio, o in altri luoghi sacri inviolabili, diventando schiavi dei gestori di quel posto; infine, recarsi presso un amico del padrone, possibilmente influente, e chiederne la protezione. È ipotizzabile che Onesimo si fosse rifugiato, abbastanza paradossalmente, dal prigioniero Paolo, appunto perché aveva optato per quest’ultima alternativa.
Il biglietto di raccomandazione non è però diretto a trattenere lo schiavo presso il suo nuovo protettore; anzi, esso si muove in direzione opposta. La scelta è una spia del carattere non sacro che connota lo stare con l’apostolo. Se Paolo avesse trattenuto lo schiavo presso di sé, avrebbe caricato la propria persona, oltre che di autorità, anche di sacralità; la prigione sarebbe diventata una specie di tempio.
Lo scritto è conosciuto come Lettera a Filemone; tuttavia per comprenderne lo spirito bisogna tener presente che il suo destinatario non è una singola persona: «Paolo, prigioniero di Gesù Cristo, e il fratello Timoteo al carissimo [alla lettera “amato”] Filemone, nostro collaboratore [alla lettera “cooperatore”], alla sorella Apfia [forse moglie di Filemone], ad Archippo nostro compagno nella lotta per la fede [alla lettera “compagno d’armi”] e alla comunità [ekklesia, “assemblea”] che si raduna nella tua casa, grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo» (Fm 1,1-3).
La lettera è, quindi, indirizzata a una «Chiesa domestica». Lo scritto è antitetico al tono riservato, caratteristico dei biglietti di raccomandazione sociali o politici. Il ritorno di Onesimo è un fatto che riguarda direttamente l’intera comunità dei credenti e non soltanto il suo padrone.
Va subito rilevato che la dimensione domestica della Chiesa non corrisponde a quella sociologica dell’oikos («casa»). Se così fosse, lo schiavo sarebbe stato battez-
zato assieme al suo padrone; invece una delle precondizioni per le quali Onesimo divenne credente fu l’es-
sere fuggito da quella casa. Lo schiavo diventa spiritualmente libero nella prigione di Paolo. Quando tornerà
dal suo padrone si troverà nella condizione di essere schiavo dal punto di vista sociale, mentre, nella sua qualità di credente, è parte di una ekklesia nella quale non ci sono più schiavi e liberi, uomini e donne, giudei e greci (cf. Gal 3,28).
Nella stesura del biglietto ci si mostra consapevoli delle classiche modalità della scrittura epistolare; tuttavia, in un passaggio, si ha l’impressione d’assistere a un rovesciamento della retorica compiuto proprio attenendosi alle sue regole. Ciò avviene anche nei nostri due versetti che ora riproponiamo in una traduzione letterale: «Perciò avendo in Cristo molta parresia di ciò che è conveniente, a causa dell’amore [agape] piuttosto [ti] prego nella mia qualità1 di Paolo, anziano [presbytes] e prigioniero di Gesù Cristo…».
In queste righe si fa ricorso alla figura retorica della preterizione. Il termine è specialistico, di contro l’uso è comune; basta pensare a frasi come: «Non ti dico che cosa mi è successo oggi», un’asserzione in cui la negazione serve a rafforzare l’esposizione di quanto seguirà. Ciò vale anche quando entra in ballo l’autorità. «Non ti parlo come padre (o come vescovo) ma come amico…», equivale a ribadire, con sotterraneo vigore, la propria condizione paterna (o episcopale).
Paolo è consapevole che esiste un rinunciare puramente retorico; infatti applica il termine «parresia» alla propria autorità che potrebbe legittimamente esercitare. Inoltre le qualifiche «anziano e prigioniero di Cristo [non già: a causa di Cristo]», lungi dall’essere un modo per impietosire i destinatari, sono una maniera per ribadire la propria autorità.
La rinuncia correrebbe il rischio di suonare retorica se non ci fosse l’appello all’agape. Paolo sa esercitare la propria autorità; in particolare afferma d’essere in grado di usarla proprio attraverso lo scritto (cf. 2Cor 10,8-11). Ora però l’accantona, per affidarsi a quell’amore di cui Filemone stesso ha dato prova sia nel Signore Gesù sia nel modo di comportarsi nei confronti di «tutti i santi» (Fm 1,5), infatti le loro «viscere» (reso alla lettera) «sono state ricreate per mezzo tuo, fratello» (Fm,1,7).
All’insegna dell’agape, Paolo si appella alla generatività che lo accomuna a Filemone; in quanto presenta Onesimo come figlio suo «che ho generato nelle catene» (Fm 1,10) e nel rimandarlo lo qualifica con l’appellativo «mie viscere» (Fm 1,10; la traduzione CEI «che mi sta tanto a cuore» è libera).
Onesimo viene rimandato perché la Chiesa domestica di Filemone e Apfia lo abbia ora come «fratello amato, in primo luogo per me ma ancora per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore» (Fm 1,16). In verità, Paolo scrive in altri termini, dichiarando «sia nella carne sia nel Signore». Così dicendo, egli evoca, forse, la sua paternità/maternità. Paolo ha generato alla fede tanto Filemone quanto Onesimo, da qui nasce una specie di fratellanza sul piano fattuale; non è realtà effimera, eppure essa è poca cosa se confrontata con l’essere per sempre nel Signore.
Paolo chiede a Filemone d’accogliere Onesimo come se fosse lui stesso. Se c’è qualche cosa da rifondere (forse lo schiavo aveva rubato), l’apostolo afferma di farse-
ne carico in prima persona (cf. Fm1,19). L’apostolo, invero, compie una duplice rinuncia: non solo s’astiene dall’esercitare la propria autorità, ma non trattiene neppure Onesimo presso di sé «perché mi assistesse al posto tuo» (Fm 1,13).
La seconda rinuncia è, pure sul piano umano, garanzia della sincerità della prima: si dà prova d’astenersi sul serio dall’esercitare l’autorità di cui si è dotati quando
se ne paga il prezzo in prima persona. Non vi è però
soltanto la prospettiva della rinuncia. Onesimo è presentato come una specie di «precursore» di Paolo. Egli
deve essere accolto come se fosse l’apostolo stesso (cf.
Fm 1,17). Ogni fratello nella fede ci rappresenta.
Non solo, Paolo dichiara che «grazie alle vostre pre-
ghiere, spero di essere restituito a voi» e quindi doman-
da che gli si prepari un alloggio (Fm 1,22). La duplice rinuncia è dunque finalizzata all’esercizio di una piena ospitalità.
Rinunciare per amore alla propria autorità
Il discorso, per noi, resta aperto. A prescindere da narrazioni leggendarie, non sappiamo se e come Onesimo sia stato accolto; ignoriamo se Paolo sia stato ospitato. Siamo a conoscenza del fatto che la lettera, rivolta alla Chiesa domestica di Filemone e Apfia, è stata conservata e trasmessa, un indizio che depone a favore dell’accoglimento fraterno dello schiavo fuggito. Al di là di ogni riscontro fattuale, resta la presenza sia della lettera stessa sia del suo messaggio che attesta il valore permanente legato alla decisione di rinunciare, in determinate circostanze, a esercitare, in nome dell’amore, la propria legittima autorità.
Nell’epistolario paolino ci sono altri esempi in cui la rinuncia a quanto si può compiere è motivata dall’agape. Uno di essi riguarda i «più deboli nella fede» (Rm 14,1). Si è nel quadro di un’ampia discussione relativa tanto ai cibi quanto a specifici giorni del calendario (cf. Rm 14-15). Paolo sa che i credenti non sono vincolati a determinate usanze, ma è consapevole che chi mangia di tutto lo fa per il Signore e che chi si astiene si comporta così per lo stesso motivo. Nulla vi è in sé stesso di impuro, tuttavia se un fratello lo considera tale lo diventa per lui. L’apostolo esorta, perciò, a non turbarlo, in tal caso si andrebbe infatti contro l’amore (Rm 14,15). La rinuncia è mossa dalla certezza, non dal dubbio.
Vi è un’analogia con il nostro biglietto: rivolgendosi a Filemone, Paolo riafferma e non già illanguidisce la propria autorità che sceglie di non esercitare. Non si devono introiettare scrupoli impropri. Noi siamo forti, dice Paolo, loro deboli; appunto per questo si è chiamati alla rinuncia.
Se le nostre convinzioni patissero delle incertezze tutto il discorso muterebbe, non si costruisce sulla sabbia: «Chi è nel dubbio, mangiando si condanna, perché non agisce secondo la fede; tutto ciò, infatti, che non viene dalla fede è peccato» (Rm 14,23).2
* Meditazione tenuta nella giornata della rivista Il Regno svoltasi nella chiesa di San Donato di Polenta il 20 luglio 2022.
1 «Nella mia qualità» non è traduzione letterale.
2 In greco, il termine è pistis, alla lettera «fede», scelta mantenuta nel latino della Vulgata «omnes autem quod non est ex fide peccatum est»; la traduzione CEI è interpretativa: «tutto ciò, infatti, che non viene dalla coscienza è peccato».