L’asino di chi ti odia
Grazia e libero arbitrio alla prova
Una sezione del Discorso della montagna (Mt 5-7) è conosciuta con l’improprio nome di «antitesi» (Mt 5,21-48). La qualifica deriva dalla clausola «ma io vi dico» che sembra contrapporsi all’«avete inteso che fu detto». Tutti concordano però nel sottolineare che quel «ma» (in greco de), lungi dall’essere avversativo, è invece intensificante. L’opposto di «non uccidere» è uccidere e non certo il divieto di insultare. L’antitesi al «non commettere adulterio» è la libertà d’avere rapporti extraconiugali e non d’affermare che si è già adulteri quando si guarda una donna per desiderarla.
Nel Sermone sul monte un’autentica antitesi, in realtà, c’è; si tratta però di una costruzione redazionale matteana riferita agli «antichi» (Mt 5,21): «Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo” (Lv 19,18) e odierai il tuo nemico» (Mt 5,43). La contrapposizione tra prossimo e nemico e tra amare e odiare è frontale. Di solito si fa tuttavia rilevare che, nella Torah d’Israele, non si trova alcun precetto che prescrive d’odiare il nemico. Peraltro in essa non c’è neppure un detto paragonabile a «ma io vi dico amate i vostri nemici» (Mt 5,44). Vi è però almeno un comandamento che riguarda un modo di comportarsi soccorrevole a vantaggio di colui che ci odia.
Il contesto non è bellico, ci troviamo nella vita quotidiana; come si è usi ripetere, le ostilità vanno esorcizzate a iniziare dagli ambiti più vicini in cui a ciascuno è dato effettivamente di operare. Per ora trascriviamo il precetto nella versione cattolica ufficiale: «Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico» (Es 23,4-5).1 Il comandamento trova una parziale corrispondenza in un passo del Deuteronomio (22, 1-4) dove però si parla, con vari dettagli, di un capo di bestiame, grosso o minuto, che appartiene a «tuo fratello» e non già a colui che ti odia.
Chi è il nemico?
La legislazione rabbinica si occupa, con la consueta acribia, d’interpretare i particolari. La Mishnah (codificazione della Torah orale chiusa nella prima metà del III secolo d.C.) comincia a domandarsi che cosa si deve intendere per «smarrito». Si entra così in una serie di casi per indicare in modo preciso e pratico come ci si debba effettivamente comportare.2
Il Midrash (per l’esattezza si tratta della Mekhilta de Rabbi Ishmael) si preoccupa invece di stabilire chi debba intendersi per nemico. Le opinioni sono varie: si parla di un idolatra, di un proselito ritornato al paganesimo, di un «ebreo perduto» (passato cioè all’idolatria), ma ci sono anche ipotesi più interpersonali, per esempio quella riferita a un uomo che abbia picchiato il figlio di colui che scorge l’animale smarrito.3
Prendiamo in considerazione un’altra traduzione del passo: «Se tu scorgi l’asino del tuo nemico soccombere sotto il proprio peso, guardati bene dall’abbandonarlo, al contrario lo aiuterai a scaricarlo (lett. scaricherai con lui)».4
La Mishnah (Bavà Metzià 2,9) a questo proposito argomenta: «Se uno ha scaricato il peso e ricaricato, e di nuovo scaricato e ricaricato, persino quattro o cinque volte, è tuttavia obbligato ancora perché il testo dice: “Devi scaricare e scaricare”. Se però (il proprietario) va e si mette in disparte e dice (all’altro): Siccome a te incombe il dovere, se vuoi scaricare scarica; l’altro è assolto perché il testo dice: con lui (cioè con l’aiuto del proprietario). Se (quegli) però è vecchio o malato, si è obbligati. Il comandamento biblico è solamente di scaricare, ma non già di caricare. R. Simeone opina anche di caricare. R. José di Galilea insegna: Se avrà addosso un peso maggiore di quanto ei potesse portare, non si è a ciò obbligati, perché il testo dice “sotto il suo peso” il che significa un peso ch’ei può portare».5
Per quanto possa dispiacere a una determinata sensibilità contemporanea, l’argomentare rabbinico non è affatto mosso da istanze legate alla tutela degli animali. Anzi, troviamo l’opinione addirittura opposta a quella che si dà pensiero della sofferenza animale: se il cadere dell’asino è dovuto al fatto di essere stato caricato in eccesso, si è infatti dichiarati sciolti dall’obbligo. Discorso analogo nel caso in cui il proprietario, con una specie di sottile ricatto precettistico, se ne sta in disparte aspettando di vedere se il nemico agisca o meno secondo quanto prescrittogli dalla Torah.
In definitiva, il fulcro della questione sta nel fatto che ci si trova di fronte a una mitzwah (precetto) che va messo in pratica. L’immane sforzo casistico che anima l’halakhah (norma) rabbinica è un modo per stabilire come si possa sempre agire in conformità con la volontà divina in una serie di situazioni che la vita moltiplica senza posa. Il criterio base che guida l’azione si radica nell’interpretazione, non nella coscienza. Il fondamento sta nella volontà di Dio (contenuta nei comandamenti) che si è tenuti a mettere in pratica. Nel nostro caso specifico, l’atto di prestar aiuto a chi ci odia non deriva dai dettami di un’etica autonoma.
Il confine tra impotenza e responsabilità
In una società in cui è ben difficile imbattersi in asini che cadono sotto il loro carico, il tentativo di rendere rigorosamente applicabile una norma antica sembra destinato all’irrilevanza. All’interno di un mondo nel quale l’inimicizia reciproca continua a prosperare, per ricavare dal comandamento un significato attuale bisogna ritornare al testo biblico.
La via principe per cercare di comprenderlo sta nel chiedersi come vada tradotto il nostro versetto. Il testo ebraico è complesso, tuttavia resta indubbio che bisogna passare per questa strettoia, superata la quale si dischiuderanno, forse, panorami più vasti. Nella resa consueta del precetto, vi è un «non abbandonarlo a se stesso» che introduce un «non» assente in ebraico. Inoltre il termine «nemico» traduce l’espressione che, resa alla lettera, indica «colui che ti odia».
Per cogliere il senso del testo va poi evidenziato che la componente imperativa è riservata solo alla parte conclusiva della frase (alla lettera «sciogli, sciogli con lui»); la riga precedente esprime invece la scelta iniziale, opposta al soccorso, compiuta da colui che vede la bestia a terra. Il versetto, quindi, andrebbe reso, all’incirca, in questo modo: «Quando vedi l’asino di colui che ti odia accasciarsi sotto il carico e desisti dal scioglierlo [asino]» proprio allora «sciogli, sciogli con lui [colui che ti odia]».6
All’inizio ci sono due stati d’animo soggettivi: da un lato l’odio nei tuoi confronti («Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te...», Mt 5,23), dall’altro la tendenza a voltare le spalle a colui che ti odia. Il comando s’innesta in questo plesso di sentimenti ostili e ordina di prestar aiuto a favore di chi ci è avverso. Si tratta di un modo di agire unilaterale che opera contro il proprio sentire e non tiene conto né di quello altrui, né di una possibile futura reazione, simpatetica o antitetica, da parte di chi ci odia.
Il comando divino confuta la spontaneità umana. Il «buon samaritano» prova compassione (Lc 10,33) per uno sconosciuto che giace ferito ai bordi della strada. In quella circostanza emerge la categoria del bisogno, non quella dell’ostilità. L’affidarsi al proprio cuore non è da tutti, ma può anche bastare per soccorrere. Il padrone dell’asino invece non è un ignoto; anzi, si sa perfettamente quali sentimenti avversi abbia nei nostri confronti. In faccia all’ostilità, l’animo umano non è guida sufficiente a se stesso. Occorre affidarsi a una parola «altra» che esige, però, una messa in pratica attuata in prima persona.
Davanti a noi si squadernano problemi di lungo corso. Qui all’origine non c’è un comandamento che apre il campo a una possibile trasgressione (cf. Rm 7,7). Il punto di partenza è l’ostilità che il precetto cerca, quanto meno, di tenere sotto controllo. Se il comandamento riesca da solo a dare alla persona umana la forza di vincere il sentimento d’avversione è, in ambito cristiano, questione tuttora aperta.
In termini teologici si parla di grazia e libero arbitrio; in quelli etici ci si trova, invece, sul confine, non di rado lacerato, posto tra impotenza e responsabilità.
1 Cf. G. Barbiero, L’asino del nemico. Rinuncia alla vendetta e amore del nemico nella legislazione dell’Antico Testamento, Pontificio istituto biblico, Roma 1991.
2 A. M. Rabello, Introduzione al diritto ebraico. Fonti, matrimonio e divorzio, bioetica, Giappichelli, Torino 2002, 15.
3 Ivi, 16.
4 Ivi.
5 Ivi, 17.
6 In tal modo è intesa, per esempio, oltre che dalla seicentesca King James («If thou see the ass of him that hateth thee lying under his burden, and wouldest forbear to help him, thou shalt surely help with him»), anche dalla recentissima Bibbia edita da Einaudi (cf. Regno-att. 4,2022,95s): «Qualora dovessi vedere l’asino del tuo avversario accasciarsi sotto il suo carico e volessi astenerti dal soccorrerlo, ti metterai al contrario a soccorrerlo con lui» (trad. di F. Giuntoli).