Perché la guerra?
Tra necessità e giustizia
Il più diffuso calendario musulmano prende l’avvio dall’egira (632 d.C.). Per collocare nel giusto orizzonte la trasmigrazione della piccola comunità dei seguaci di Muhammad da Mecca a Yatrib (la futura Medina) occorre aver presente che, solo da quel momento in poi, i musulmani si trovano nella condizione di stipulare accordi con altri gruppi. Là dove ci sono patti si apre, però, anche la possibilità della loro violazione. Gli accordi, al pari dei comandamenti, indicano, a un tempo, la giusta direzione e dischiudono la porta alla trasgressione con la conseguente sequela di possibili ritorsioni.
La classica divisione delle Sure coraniche tra periodo meccano e medinese svolge un ruolo decisivo anche in relazione alla guerra. Secondo una tradizione risalente ad Abu Bakr (suocero del Profeta e futuro primo califfo), i primi due versetti relativi alla guerra risalgono, non a caso, al secondo anno dell’egira: «È dato il permesso a quelli che combattono perché sono oppressi ingiustamente – Dio è potente e soccorrevole – e a quelli che sono stati ingiustamente scacciati dalle loro case solo per aver detto: “il nostro Signore è Dio”. Se Dio non avesse respinto alcuni uomini per mezzo di altri, i monasteri e le sinagoghe, gli oratori e le moschee dove il nome di Dio è spesso ricordato sarebbero distrutti. Dio soccorrerà chi lo soccorre, Dio è forte e potente (Q. 22, 39-40)».1
Il passo coranico attesta che la guerra è legittima quando difende il diritto di praticare il proprio culto. Dalle esemplificazioni prospettate (monasteri, sinagoghe, oratori e moschee) si comprende che ciò vale non solo in ambito musulmano. Il senso complessivo del discorso coranico si radica in una visione antropologica e sociale secondo la quale non è dato ipotizzare un mondo privo di contrasti e quindi di violenza interiore ed esteriore.2 Nello specifico, dai versetti di questa Sura si ricava che Dio dispone che ci siano scontri armati per far sì che sulla terra sussistano comunità religiose che lo adorano. Che si tratti di volontà divina è opzione teologica, mentre è un dato empirico constatare che le guerre hanno ricadute dirette sull’esistenza delle società e quindi anche sulle comunità religiose, pure nel caso in cui esse non partecipino direttamente al conflitto. L’aspetto più inatteso, ma anche potenzialmente più inquietante del brano è il riferimento al «soccorrere Dio», espressione dal suono, all’apparenza, poco islamico che in questo contesto implica la tutela, anche manu militari, dei propri luoghi di culto.
Essere operatori di pace?
Che la pace, anche sotto la forma di semplice tregua, sia meglio della guerra è opzione evidente. L’interrogativo di fondo non sta qui. La questione cruciale è quella che, in buona sostanza, ha messo in scacco due dei massimi intelletti del XX secolo: Einstein e Freud. Il loro scambio sul tema Perché la guerra?3 attesta, infatti, un’insuperabile eccedenza della domanda sui tentativi di risposta avanzati in quella sede. Einstein nel 1932 si chiese: «Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione?». Novant’anni dopo l’interrogativo resta aperto; da allora, le ragioni del no sembrano però conquistare sempre maggior spazio.
Se la domanda fosse stata rivolta, poco più di un secolo prima, a Joseph De Maistre non sarebbe mancata una pronta risposta tragica ed efficace: la guerra è inevitabile perché la sua radice più profonda scavalca l’ambito della psiche umana: «Così si attua perennemente la grande legge della distruzione violenta degli esseri viventi, dall’animaletto quasi invisibile all’uomo. La stessa terra sempre intrisa di sangue non è che un immenso altare sul quale tutto ciò che vive deve essere immolato all’infinito, senza misura, senza tregua, fino alla consumazione delle cose, fino all’estinzione del male, fino alla morte della morte (…) la guerra è dunque divina in se stessa, poiché è una legge del mondo».4
La guerra universale è il concime dell’aiuola che ci fa tanto feroci. Per rispondere al problema sollevato da questa «legge del mondo» occorre trovare parole all’altezza di una sfida di natura «cosmico-escatologica». Le considerazioni, perciò, devono collocarsi su un piano più radicale di quello che si limita ad affermare che la minaccia della guerra è una possibilità perenne nella storia umana.
Vari anni addietro, il card. Tauran, nella Prefazione a un imponente Enchiridion della pace, scrisse: «Verità, libertà, giustizia e diritto. Per i papi sono queste le colonne sulle quali si fonda la pace. Il loro insegnamento sulla pace è lontano da un pacifismo naïf: i cristiani, più che pacifisti, sono “operatori di pace”. Essi sono ben consapevoli che “gli uomini, in quanto peccatori, sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta di Cristo” (Gaudium et spes n. 78; EV 1/1592)».5
L’elencazione dei termini positivi di verità, libertà, giustizia e diritto diventa un riferimento fragile quando situazioni drammaticamente concrete costringono ad agire, almeno in parte, ingiustamente. Il discrimine si palesa in circostanze nelle quali si è sospinti a scindere la «necessità» dalla «giustizia».
Una ricomposizione quasi impossibile
È quanto capitò a Dietrich Bonhoeffer nel corso della Seconda guerra mondiale. Egli non elaborò alcuna teoria della guerra giusta; Bonhoeffer era infatti persuaso che anche lo schierarsi con la parte offesa comportasse uno strascico di colpe oggettive. Le sue riflessioni e le sue scelte – secondo le parole di Alberto Gallas – indicano però «una precondizione fondamentale perché il problema della guerra giusta (o meglio di una guerra cui un cristiano sia tenuto a partecipare) si possa anche semplicemente porre, e cioè la reale apertura a riconoscere che la causa giusta può essere quella del “nemico” anziché quella del mio popolo.
Questo significa prendere sul serio l’interrogativo di Gesù: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” (Mt 12,48) (…) Da queste premesse Bonhoeffer trasse la convinzione che la partecipazione alla resistenza implicava la disponibilità a eseguire anche personalmente un attentato contro Hitler, e definì “lusso morale” la tesi opposta sostenuta da un altro membro della resistenza, Helmuth James von Moltke (anch’egli giustiziato poi dai nazisti)».6
I sostenitori della nonviolenza evangelica vanno incontro a un autentico dramma quando sono costretti a prendere atto che, all’interno di questo mondo, vi sono circostanze in cui la violenza, per quanto ingiusta, risulta inevitabile. Qui non si dà alcuna ricomposizione tra i due estremi. Per il cristiano il forzato ricorso alla violenza è spiritualmente giustificato soltanto in nome della presenza di una reale tensione escatologica. Esso esclude ogni appello a principi ideali incapaci di calarsi in situazioni concrete.
Un conto, infatti, è considerare la venuta di Cristo come un termine sine die che consente l’effettuazione, nella storia, di guerre sedicenti giuste; tutt’altra cosa è invece la scelta del credente di rendere la lacerazione attuale un ulteriore motivo per invocare: Maranatha.
Il cardinal Tauran, quando lo citò nella suddetta Prefazione, amputò il passo della Gaudium et spes di una sua parte qualificante. Letto nella sua interezza, il brano conciliare suona così: «Gli uomini, in quanto peccatori, sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta di Cristo, ma in quanto riescono, uniti nell’amore, a vincere il peccato, essi vincono anche la violenza, fino alla realizzazione di quella parola divina: “Con le loro spade costruiranno aratri e falci con le loro lance; nessun popolo prenderà più le armi contro un altro popolo, né si eserciteranno più per la guerra” (Is 2,4)».
Il passo tratto dal Vaticano II mostra un’oscillazione incoerente debitrice di un ottimismo storico proprio di anni ormai lontani: si è peccatori, ma nel contempo si è a tal punto in grado di uscire dal peccato da realizzare quanto non è mai avvenuto nell’intera storia umana, vale a dire essere costruttori di una pace priva di tramonto. Oggi siamo costretti a pensare in altro modo. La cesura della citazione tratta dalla Gaudium et spes suona ai nostri orecchi come un’opzione ormai addirittura simbolica.
1 Trad. it. I. Zilio Grandi.
2 Cf. T. Ramadan, Jihâd. Violenza, guerra e pace nell’Islam, Edizioni Al Hikma, Imperia 2006, 28. Una delle tesi di fondo esposta da Ramadan è di sostenere l’impossibilità di un mondo privo di contrasti e quindi la necessità di una presenza, regolata, della violenza interiore ed esteriore.
3 S. Freud, A. Einstein, Perché la guerra?, Bollati Boringhieri, Torino 1997.
4 J. De Maistre, Le serate di Pietroburgo, colloqui sul governo temporale della Provvidenza. Settimo colloquio, Rusconi, Milano 1971, 398s.
5 J.-L. Tauran, «Prefazione» a Enchiridion della pace, 2 voll., EDB, Bologna 2004. Cf. Regno-att. 12,2004,411s.
6 A. Gallas, «Profezia e sapienza. La testimonianza di Dietrich Bonhoeffer», in Credere oggi. Profeti e profezia (1997) 102, 107.