La donna che scriveva di vite povere
Il titolo inglese è bellissimo, A Manual for Cleaning Women (Manuale per donne delle pulizie). L’edizione italiana porta un titolo più slavato, La donna che scriveva racconti (Bollati Boringhieri, Torino 2015). L’autrice è Lucia Berlin, e il racconto è la sua arte, superba arte che isola ogni frammento di vita e lo fa brillare come un assoluto. Sono anche frammenti che tagliano, fanno malissimo. Vite così povere di tutto. Nemmeno il minimo di affetto. Il minimo di cultura. Di cibo. Verrebbe da dire, anche di umanità.
Ma invece no. In ogni racconto, ogni ogni racconto, l’umanità si affaccia attraverso una parola che sorprende, una scelta che non ci si aspetta. Un pensiero.
La protagonista di Morsi di tigre ha un bambino piccolissimo, un ex marito da dimenticare, dei genitori che finché lei ha fatto le stesse loro scelte le hanno regalato rotoli di banconote, cadillac e appartamenti come noi possiamo regalare una scatola di caramelle o una bottiglia di vino. Poi, quando si è malamente sposata, hanno chiuso, per sempre e del tutto. Ma a Natale si deve stare insieme per cui ci deve essere anche lei, che ha scoperto tardivamente di essere incinta. La cugina le organizza in cinque minuti un aborto in una casa clandestina. Proprio prima della riunione di famiglia. C’è un’onda nelle cattive scelte e lei ancora la cavalca stordita. Ma alla fine non lo fa questo aborto. Intorno è tutto una disperazione di ragazzine violentate, di donne troppo vecchie per avere l’ennesimo figlio. Ma lei non sarà una di queste. Torna nella follia assoluta della sua famiglia, un’altra onda sicuramente folle e malata, ma lo spazio per il suo bambino c’è.
Storie vere ma inventate, scrive la copertina del libro. Lucia Berlin ha avuto un po’ di mariti, quattro figli, ha fatto i mille lavori che troviamo in queste pagine. I mille dolori e abbandoni.
L’infermiera di Taccuino del pronto soccorso, 1977 adora il suo lavoro: «Resto senza parole davanti al corpo umano, alla sua capacità di resistenza (...) Rimango affascinata davanti a due dita in una busta di plastica, alla lama scintillante di un coltello a serramanico infilata nella magra schiena di un pappone. Mi piace il fatto che al pronto soccorso si possa aggiustare ogni cosa, oppure no» (107).
In Buoni e cattivi c’è la più spaventosa narrazione che si possa mai fare dell’inferno in terra. È la discarica di Santiago. All’inizio sembrava deserto, «dune di rifiuti puzzolenti, ancora fumanti». Poi a guardar bene si vedono persone sopra le dune, «dello stesso colore del letame, e gli stracci erano come l’immondizia in mezzo alla quale grufolavano carponi. Nessuno stava in piedi, correvano a quattro zampe come ratti bagnati, buttavano le cose dentro sacchi di tela che li facevano somigliare ad animali gibbosi, giravano in tondo, balzavano in avanti» (152).
Chi ha dimestichezza con l’Apocalisse spera nel suono della tromba, nel giudizio finale, con i suoi rovesciamenti assoluti. Sogna di essere finalmente incenerito, purché la vergogna finisca. L’alcol spunta come un’ossessione. Qualsiasi sia il tema della storia, c’è sempre alcol in giro. A volte rende solo distratti i rapporti con il mondo, soprattutto con la famiglia. A volte li devasta, come nel racconto brevissimo Incontrollabile, un lampo che ci porta dentro una casa poco prima dell’alba. La madre non può cominciare la giornata se non trova un po’ d’alcol, i due figli le hanno nascosto portafoglio e chiavi della macchina, lei fruga borse, tasche dei cappotti, cassetti e trova quel che le serve, in mille spiccioli ma i quattro dollari per un quarto di vodka ci sono. Esce aggrappandosi ai cespugli, ai tronchi. L’unico negozio che apre prestissimo è ancora chiuso, ci sono già sette uomini in attesa. La identificano come quella più bisognosa di alcol e la lasciano passare, solidarietà. Torna a casa in tempo prima che i figli si alzino, riesce a bere, si riassesta, è addirittura quasi allegra, un po’ brilla. Uno dei figli capisce che ha bevuto: «Come diavolo sei riuscita a procurarti da bere?». Ha tredici anni ed è più alto di lei. Lei chiede di riavere portafoglio e chiavi. Lui le risponde che le chiavi le riavrà quando starà bene: «Non puoi smettere senza ricoverarti», le dice. Poi i due figli vanno a scuola, le danno un bacio e prendono gli zaini. Lei li guarda salire sull’autobus ed esce. Diretta al negozio di alcolici all’angolo, ormai aperto (180).
In Mijito parla di nuovo un’infermiera, Pat. Nell’ambulatorio dell’ospedale pediatrico di Oakland incontra Amelia, mamma bambina. È arrivata da immigrata messicana per sposare il suo Manolo. È terrorizzata dal mondo nuovo, soprattutto dal rumore
delle macchine: «Avevamo macchine davanti, dietro, macchine che andavano nella direzione opposta, macchine macchine macchine in vendita e negozi e negozi e ancora macchine» (385).
Manolo va in prigione, vaghi parenti la accolgono in casa provvisoriamente, lei è incinta e il piccolo Jesus nasce in condizioni terribili. Non c’è posto per loro in casa. Nella casa di nessuno. L’infermiera Pat quando si affaccia alla sala d’attesa sorride ai genitori o ai nonni che portano bambini destinati a non diventare grandi, ma sta attenta a guardare solo «il terzo occhio in mezzo alla fronte (...) È l’unico modo per riuscire a lavorare in un posto come questo (...) Se guardi un genitore negli occhi, non fai che comunicargli, confermargli tutta la paura, la stanchezza il dolore» (388).
Ci prova, ad aiutare Amelia. Quel che può è tanto ma è troppo poco. Ci prova anche il dottore. Ma un bambino ha fame, ha sonno, piange. Il mondo intorno si infastidisce che pianga così tanto. Amelia cerca di farlo tacere. «Amelia, tu lo sai che Jesus è morto?», chiede Pat. «Sì, lo so» (411).
«È una questione di speranza» (153) dice la professoressa Dawson di Buoni e cattivi quando qualcuno osserva che non serve a niente nutrire i miserabili della discarica una volta alla settimana, per buon cuore. Sì, di speranza. Ma anche, soprattutto, di giustizia.