Italia - Pastorale: credere social
Che cosa vuol dire stare sui social media da cattolici? Ma soprattutto, esiste davvero un modo cattolico per utilizzarli? Queste e molte altre riflessioni hanno guidato un interessante confronto in occasione del webinar «Catto-social: il fenomeno don Ravagnani e le sfide digitali per la Chiesa», organizzato da Vinonuovo.it e svoltosi lo scorso 16 febbraio. Fra i partecipanti anche lo stesso don Alberto.
Il boom sui social del ventisettenne sacerdote di Busto Arsizio, diventato celebre per aver trovato in YouTube un canale di dialogo con i suoi studenti e ragazzi dell’oratorio durante il primo lockdown, è stato l’occasione per discutere del loro ruolo nel mondo cattolico, fra i ragazzi e non solo. Di don Alberto avevamo già parlato a giugno nel numero 14 di Attualità 2020, ma da allora di cose ne sono successe molte e l’incontro è stato utile per raccontare quelle che potremmo definire delle vere e proprie esperienze di evangelizzazione digitale.
Fra gli ospiti anche la sociolinguista Vera Gheno e don Luca Peyron, coordinatore del Servizio per l’apostolato digitale della diocesi di Torino, che insieme a don Alberto hanno cercato d’indagare le sfide digitali che oggi la Chiesa è chiamata ad affrontare.
I social media, nella definizione classica di Andreas Kaplan e Michael Haenlein (https://bit.ly/38phXCk) sono quel «gruppo di applicazioni basate su Internet che costituiscono i fondamenti ideologici e tecnologici del web 2.0 e che consentono la creazione e lo scambio di user-generated content», ovvero, di contenuti creati dagli utenti. La loro tipica caratteristica è quella dell’orizzontalità della comunicazione. È ciò che differenzia i social media dagli altri mezzi di comunicazione di massa, ossia la possibilità di creare e scambiare contenuti in una simultaneità che ci porta a essere sempre più connessi gli uni agli altri.
Raccontando la sua quotidianità sul web, don Alberto ha insistito sul concetto di comunicazione paritaria, e sul fatto che ciò che avviene sui social è spesso meno costruito di quello che accade sugli altri mezzi di comunicazione. Ci sarebbe cioè una maggiore spontaneità da parte degli utenti, senza però dimenticare rischi e pericoli di questo ambiente comunicativo in cui siamo immersi.
A tal proposito è utile menzionare qualche numero sulla crescente digitalizzazione che stiamo vivendo. Secondo l’agenzia di comunicazione We Are Social, nel 2020 – anno d’inizio della pandemia – in Italia erano oltre 1 milione le persone connesse a Internet per la prima volta, con un incremento del 2,2% che fa superare la soglia dei 50 milioni.
Sono poi oltre 2 milioni i nuovi utenti sbarcati sulle piattaforme social: un incremento quasi del 6% per un totale di 41 milioni (dati Global Digital Report 2021; https://bit.ly/30sWKTB). Sono dati significativi che evidenziano come la nostra società stia cambiando velocemente e con essa le relazioni sociali in cui tutti – anche i cattolici – si trovano a vivere quotidianamente.
I social – e più in generale la Rete, in cui essi s’inseriscono – sono un ambiente che siamo chiamati ad abitare: esso pervade la nostra realtà, sia quella che si crea nella connessione sia in quella senza, determina le nostre abitudini e i nostri comportamenti. È dalla miscela di questi elementi che emerge quindi la necessità di un’educazione e di una formazione per stare su queste piattaforme, che ci portano a esporci pubblicamente al mondo.
Primo, la coerenza
Questa apertura amplifica le opportunità che abbiamo di entrare in relazione. La testimonianza di don Alberto racconta l’incontro con l’altro – potremmo dire con il «prossimo» – su Facebook, YouTube, Instagram, Tik Tok: «I social sono piazze dove tutti noi siamo chiamati a partecipare, ascoltare, interagire. Sono luoghi di relazione e grandi occasioni per crearne di nuove e autentiche anche fuori dal virtuale». Piazze che compongono una città più grande in cui scopriamo posti nuovi: navigare in Rete ci permette di scoprire nuove piazze virtuali e nuovi linguaggi da imparare per conoscere.
Come ad esempio, la novità del momento: ClubHouse. Si tratta di un social fatto solo di audio: si può solo parlare e ascoltare all’interno di «stanze» create appositamente per discutere, su invito, di una tematica. Ravagnani ha così pensato di crearne una dove ogni mattina legge e commenta il Vangelo. Un esercizio per recuperare il gusto della parola e la dimensione dell’ascolto, per un dialogo che passa oggi sempre più attraverso formati differenti ma complementari. Il linguaggio del digitale che ne deriva può così diventare uno strumento per comunicare meglio la fede e moltiplicare le opportunità di evangelizzazione.
La pandemia ci ha abituati a nuove forme comunicative, anche in campo religioso. La storia di don Ravagnani ne è un esempio, così come quella di molti altri religiosi e laici che con creatività hanno trovato nella Rete nuove strade di accompagnamento dei fedeli. Oggi sta forse nascendo una nuova generazione di credenti in grado di comunicare la propria fede con il linguaggio del digitale, ma ciò passa inevitabilmente dal nostro essere credenti anche fuori dai media.
Non esiste una versione social della fede, quanto piuttosto l’applicare coi linguaggi della Rete quella capacità d’ascolto, incontro e dialogo che dovrebbe caratterizzare la vita di fede. È probabilmente questa la risposta alle domande con cui abbiamo aperto l’articolo. Andare là dove sono le persone: una sfida storicamente importante per la Chiesa e con essa per ogni credente.
Sia off-line sia on-line.
Giuliano Martino