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Attualità
Attualità, 6/2021, 15/03/2021, pag. 201

Ceneri e Pasqua

Vivere e morire secondo il Vangelo

Piero Stefani

Con le poche parole «cenere in testa e acqua sui piedi» don Tonino Bello sintetizzò, con il suo stile inconfondibile, l’itinerario quaresimale. La distanza misurata in metri tra il vertice e la base dell’essere umano non è molta, la sequela dei giorni che va dal Mercoledì delle ceneri al Giovedì santo è già più estesa, ma ben più lungo è il cammino spirituale orientato a far curvare il proprio capo verso i piedi altrui.

Se invece di partire dall’imposizione delle Ceneri iniziamo dalle parole che l’accompagnano, l’arco che ci si prospetta abbraccia l’intera vita pubblica di Gesù dall’inizio della sua predicazione fino al Golgota. La formula oggi maggiormente impiegata quando il celebrante deposita la cenere sul capo dei fedeli è: «Convertitevi e credete al Vangelo». Sono le stesse parole con cui, secondo Marco, Gesù dà inizio alla sua predicazione (Mc 1,15).

Nel rito, l’invito alla conversione si accompagna a ceneri già pasquali provenienti dalla bruciatura dei rami di ulivo benedetti l’anno precedente. Che il versetto evangelico sia un punto di partenza è detto, oltre che in riferimento alla conversione, anche attraverso l’invito in esso contenuto di credere al Vangelo. Sostantivo, quest’ultimo, raramente presente proprio in quegli scritti destinati a essere universalmente conosciuti, a partire dalla fine del II secolo, con il termine «Vangelo».1 Marco, in relazione alla predicazione di Gesù, parla infatti semplicemente di «evangelo [buona notizia]», senza dire nulla del suo contenuto. Il cuore del messaggio lo si scoprirà solo cammin facendo.

Tutti sappiamo che esistono notizie vere e informazioni false, ma le une e le altre sono tali soltanto in relazione ai loro contenuti. Una notizia è buona se ci comunica un «lieto evento» (e non si tratta solo di nascite) ed è cattiva se ci informa di un accadimento triste o addirittura tragico.

Ma come fa a essere buona una notizia priva di contenuto? «Il tempo (kairòs) è compiuto e il regno di Dio è vicino, convertivi e credete al Vangelo» (Mc 1,15). Marco prospetta un puro annuncio. Bisogna credere che si sia compiuto il tempo in cui irrompe l’annuncio buono. Ciò avviene perché la bontà della notizia è connessa in modo indelebile alla presenza stessa dell’annunciatore. Si è invitati, almeno implicitamente, a credere in lui.

Dalla bocca di Gesù non sono ancora usciti insegnamenti; la sua voce e le sue mani non hanno ancora compiuto miracoli. Tutto ciò trova riscontro nella scena immediatamente successiva, la chiamata dei primi quattro discepoli: Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni. Tutti i chiamati rispondono senza aver visto un segno, senza scorgere un prodigio (è il solo Luca nel passo parallelo a parlare della pesca miracolosa: Lc 5,1-11).

Vi è unicamente una persona che chiede di essere seguita e promette ai chiamati un mutamento di condizione: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini» (Mc 1,18). Quanto è costatabile in relazione a Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni è l’uscita dal lavoro e dalla famiglia mentre, rispetto al futuro, si deve fare affidamento solo a parole paradossali che prospettano una missione senza, ancora una volta, indicare il contenuto del messaggio. Seguire Gesù comporta sempre credergli sulla parola, anzi esige di credere alla sua parola.

Ognuno ha la propria vita, ognuno ha la propria croce

La volta successiva in cui in Marco appare la parola «Vangelo» ci si trova in un contesto fattosi diverso; ora vi è un contenuto e si tratta della croce. Ci troviamo subito dopo il primo annuncio della passione e della risurrezione «E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,31).

A queste parole Simone, ormai diventato Pietro, rimprovera Gesù, il quale gli replica duramente e gli dà un ordine: «Va’ dietro di me Satana» (Mc 8,33). L’iniziale «venite dietro di me» (Mc 1,17), si è trasformato in un «va’». C’è una distanza fattasi maggiore. Si segue Gesù, tuttavia ognuno, a cominciare da Pietro, è chiamato a percorrere la strada della croce in prima persona.

Nella scena successiva, davanti alla folla e ai discepoli, Gesù dirà: «Se qualcuno vuole seguire dietro di me [reso alla lettera] rinneghi se stesso prenda la propria croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,34; cf. Mc 10,29). Come ognuno ha la propria vita, così ognuno ha la propria croce.

Non si tratta, come è evidente, della versione proverbiale secondo la quale la vita di ciascuno è cosparsa di sofferenze e di perdite. Per testimoniare la verità di questa prospettiva basta la nuda esperienza. Per indicare la presenza di queste croci non c’è bisogno del Vangelo. La croce da prendere è la propria, in quanto a ciascuno è chiesto di perdere la sua vita per salvarla. Tutti per risorgere devono prima morire. Il Vangelo del Regno è diventato il Vangelo della Pasqua. Più che credere nel buon annuncio, si è ormai chiamati, al fine di risorgere, a vivere e a morire secondo il Vangelo.

Nella liturgia della Veglia pasquale si proclama un passo della Lettera ai romani nel quale si afferma: «Se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui» (Rm 6,8). In un solo versetto vi sono verbi coniugati al passato, al presente e al futuro. In esso vi è un paradosso: il tempo passato riguarda il morire, vale a dire la realtà che per noi tutti rappresenta un futuro. La morte coniugata al passato è motivo di speranza perché non si tratta della morte presa in se stessa, ma della nostra morte con Cristo.

Siamo di fronte a quanto è definibile come un «morire battesimale»: «O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme con lui nella morte» (Rm 6,3-4). Quella morte è nel nostro passato, mentre quell’altra che porrà fine alla nostra esistenza terrena riguarda il nostro avvenire. Nella profondità del nostro essere, tutti sappiamo di dover morire, nessuno è nelle condizioni di dimenticarselo.

«Polvere tu sei e polvere ritornerai»

Il rito delle Ceneri consente tuttora d’impiegare la formula che per secoli fu l’unica utilizzata: «Ricordati uomo che sei polvere e in polvere ritornerai». Per lungo tempo la si è associata al «memento mori». Un ammonimento in fin dei conti inutile se il suo fine fosse semplicemente quello di rammentare ciò che tutti sanno. Il richiamo penitenziale in effetti era ripetuto per un altro scopo. Il suo intento non era tanto quello di far rammemorare la morte, quanto di ammonire i fedeli che c’è un «dopo morte» in cui si verrà sottoposti al giudizio: ricordati che devi morire perché renderai conto a Dio della tua vita.

Si tratta di una prospettiva diventata quasi completamente estranea alla spiritualità odierna. Per questo motivo, il ricordare in sede liturgica la fragilità della condizione umana evoca oggi lugubri rintocchi di una campana incapaci di dischiudersi verso una speranza pasquale.

La formula legata alla polvere deriva dalla Genesi. Nel passo contenuto nel primo libro della Bibbia manca però (tutt’altro che occasionalmente) ogni riferimento imperativo al ricordare: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e polvere ritornerai». La Genesi propone, per così dire, una «meditatio vitae». Quel «perché» si collega a un’esistenza finita che per sussistere ha bisogno di alimentarsi e per farlo necessita del lavoro. Si parla dei giorni della nostra vita. Resta comunque saldo il fatto che la polvere è quella dell’adamah (terra, suolo) con cui il Signore Dio plasmò l’adam (cf. Gen 2,7).

Il versetto genesiaco, lungi dal presentarsi come un ammonimento del fatto che si debba morire, si prospetta come una descrizione della vita terrena. Questa condizione esistenziale è rimasta immutata anche dopo la risurrezione di Gesù. Dobbiamo ricordarcene? Lo sappiamo, per averne una prova basta guardare in noi e attorno a noi. Chi deve ricordarsi della condizione delle proprie creature è invece il Signore.

Ruperto di Deutz ha avuto un’intuizione profonda rispetto alla nostra natura fatta di polvere: «Quando ce ne ricordiamo umilmente anche Dio se ne ricorda misericordiosamente, come sta scritto: “come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di coloro che lo temono poiché egli sa di che cosa siamo plasmati, e si ricorda che siamo polvere” (Sal 103,13s)». Se ne ricorda perché è stato lui a plasmarci con la polvere dell’adamah.

Questa condizione umana fragilmente polverosa è ancora la nostra e per ricordarcelo non c’era bisogno di alcuna pandemia. Quanto invece necessita di venir annunciato è il nostro essere custoditi nella memoria di Dio. Per il rito delle Ceneri si potrebbe proporre questa formula: «Il Signore si ricorda che tu sei polvere». In tal modo la consapevolezza della propria fragilità s’incontrerebbe con la fiducia riposta in Dio nostro creatore.

 

1 Mt 4,23; 9,35; 24,14; 26,13; Mc 1,1.14.15; 8,35; 10,29; 13,10; 14,9; 15,15.

Tipo Parole delle religioni
Tema Teologia Ecumenismo - Dialogo interreligioso
Area
Nazioni

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