Preti nella crisi, seminari da ripensare
Non è solo la cronaca che ci parla della crisi dei preti. Sotto l’iceberg dei casi eclatanti sta emergendo la necessità di un profondo ripensamento del ministero presbiterale, frutto dell’incrocio tra più criticità. Tre recenti volumi pubblicati dalle Edizioni dehoniane Bologna offrono uno spaccato interessante su un tema di cui anche la rivista a più riprese si è occupata (cf. Regno-att. 4,2021,133; 16,2021,492).
Non è solo la cronaca che ci parla della crisi dei preti. Sotto l’iceberg dei casi eclatanti sta emergendo la necessità di un profondo ripensamento del ministero presbiterale, frutto dell’incrocio tra più criticità. Tre recenti volumi pubblicati dalle Edizioni dehoniane Bologna offrono uno spaccato interessante su un tema di cui anche la rivista a più riprese si è occupata (cf. Regno-att. 4,2021,133; 16,2021,492). «La crisi, infatti, non è sicuramente terminata. Oggi assume forme meno eclatanti, quasi “private”, ma non meno preoccupanti – lo afferma mons. Erio Castellucci, arcivescovo di Modena nella Prefazione al volume di E. Brancozzi, Rifare i preti. Come ripensare i seminari –. Non sono affatto in calo le richieste di dispensa dal ministero presbiterale e continua in Italia a diminuire il numero dei seminaristi: due indicatori molto chiari di una crisi che continua a farsi sentire. Non è più una nave che si muove facendo fischiare le sirene; è un sommergibile che viaggia senza quasi farsi notare, ma gli effetti sono comunque tangibili. La risonanza nazionale è di solito riservata ai casi di immoralità conclamata; ma localmente spuntano non poche situazioni di crisi personali» (9).
E non è una questione solamente italiana, come afferma il vescovo emerito di Nanterre, Gerard Daucourt in Preti spezzati (d’imminente pubblicazione). Ecco come commenta (cf. 15-17) i risultati dell’indagine che è stata commissionata dalla Conferenza episcopale francese sul proprio clero.
«In Francia, nel dicembre 2020, è stata avviata dai vescovi un’inchiesta che ha coinvolto 5.862 preti diocesani al di sotto dei 75 anni e ancora attivi nel ministero. I risultati (3.543 risposte complete registrate) permettono di avere una valutazione abbastanza attendibile della salute fisica e psichica dei preti. In questa indagine, un prete su cinque stima di avere un costante sovraccarico di lavoro, mentre per uno su due il sovraccarico è occasionale. La media settimanale è di 58 ore e la metà di coloro che rispondono dichiara di lavorare tra le 9 e le 12 ore al giorno. Il sovraccarico di lavoro, la messa in discussione della figura del prete in una società largamente desacralizzata, il numero crescente di battezzati che non vivono la fede cristiana ma richiedono “pratiche” religiose sono, a mio parere, le tre cause più importanti del malessere o dei drammi che vivono alcuni preti.
Molti preti non osano o non sanno dire di no e quindi accettano tutte le sollecitazioni pastorali, con due motivazioni più o meno coscienti: l’amore per le persone e il desiderio di adempiere pienamente la missione che il vescovo ha loro affidato. Spesso ho detto a un prete nel momento di inviarlo verso un nuovo ministero: “Tu non potrai fare tutto ciò che ti ho affidato. Fa’ quello che puoi. Non esitare a dire dei no” (…)
In Europa, il prete è sempre meno considerato nella società. La bizzarra laicità francese l’ha completamente emarginato da una cinquantina d’anni. Il ruolo che ancora gli riconosce la società civile, in Italia per esempio, non deve illudere. È un cambiamento progressivo ma importante. La maniera di viverlo può creare contrasti tra i preti, in particolare tra quelli europei e quelli provenienti dall’Africa o da altri paesi, nei quali la figura del prete è molta considerata, rispettata, cercata, come avveniva un tempo da noi, ma a volte con le conseguenze che abbiamo conosciuto: chiusura nel personaggio ecclesiastico, clericalismo, autoritarismo, per non dire degli abusi di vario genere.
Rimango meravigliato nel constatare che preti giovani e meno giovani non abbiano percepito i cambiamenti della società che ci obbligano a porci diversamente nel nostro ministero. Alcuni li rifiutano decisamente e cercano, guardando indietro alla vita della Chiesa, i comportamenti e le pratiche che a loro convengono. Fatto più grave, altri continuano il loro lavoro come fossero dei funzionari, ma non ci mettono più il cuore e vanno alla ricerca di compensazioni, mentre altri ancora si lasciano andare».
Allora è opportuno in questo mare in tempesta dare la voce a chi, prete, s’interroga sul perché della propria vocazione e del perché oggi si mastica pane e crisi a ogni piè sospinto. La «realtà del calo numerico delle vocazioni va osservata senza fretta – afferma (don) Domenico Cambareri in Contro don Matteo. Essere preti in Italia, pp. 152 (qui 18ss) –. La lettura che se ne dà dipende anche dall’immagine ecclesiologica che prendiamo come riferimento. Se il nostro riferimento è la Chiesa istituzionale prevista dal Concilio tridentino – il concilio veramente applicato in toto – allora è legittimo parlare di “crollo delle vocazioni”, che sarà sempre più vertiginoso. Le cose cambiano se assumiamo come riferimento l’ecclesiologia del concilio Vaticano II, che restituiva all’intera comunità ecclesiale (si legga laiche e laici) un protagonismo carismatico. Prima o poi proveremo a fidarci di questa intuizione (…)
Una ecclesiologia che ormai appartiene al passato e che pretende un presente somigliante a quel passato, oggi può indurre il nostro “don di turno” a un vero e proprio straniamento (…) Abbiamo però una buona notizia: se si avverte questa situazione, si è sulla via buona per cambiare. Di certo è peggio, invece, per chi si sente a suo agio nel 1545!
Dove nasce la crisi del clero? (…) Possiamo tentare qualche risposta; sicuramente laddove dovrebbe essere nutrito il pensiero: i seminari diocesani.
Se ci lamentiamo di un’ideologia ecclesiologica fragile è perché c’è un pensiero ormai rachitico (non è solo altrui il “pensiero debole”) che non regge più l’impatto con la storia. Col tempo il malessere s’incarna ed esplode nelle parrocchie e i presbitèri sono il contesto ecclesiale che, invece di intervenire sulla situazione alleviandola, la aggravano dando vita a uno stile di fraternità cordiale sì, ma ben lungi dal rischio di un qualche coinvolgimento affettivo».
Il punto è chiaro: occorre ripartire – tutto il popolo di Dio – dal ripensamento del modello di formazione e dal modello ecclesiologico, nella direzione verso la quale Francesco sta cercando d’avviare la Chiesa intera.
Maria Elisabetta Gandolfi