La Pasqua del silenzio
La piazza era livida, svuotata. Sullo sfondo, dalla parte opposta di San Pietro, i lampeggianti blu dalle macchine della sicurezza rendevano più freddo l’imbrunire di Roma. Un silenzio surreale, rotto dalle sirene delle ambulanze, si componeva con il suono delle campane in una dissonante armonia tra emergenza e speranza. Un cielo di pioggia battente, che a tratti, mossa dal vento, picchiava sul crocifisso di san Marcello appoggiato a una colonna del sagrato. Il sangue dipinto del Cristo che fuoriusciva dal costato e l’acqua vera che colava lungo le membra scolpite della statua davano qualcosa di reale all’immagine: «Subito ne uscì sangue e acqua» dice Giovanni (19,34). Morte e vita secondo il simbolo giovanneo. Lo Spirito che viene consegnato sulla croce. La teologia della gloria è la teologia della croce.
La piazza era livida, svuotata. Sullo sfondo, dalla parte opposta di San Pietro, i lampeggianti blu dalle macchine della sicurezza rendevano più freddo l’imbrunire di Roma. Un silenzio surreale, rotto dalle sirene delle ambulanze, si componeva con il suono delle campane in una dissonante armonia tra emergenza e speranza. Un cielo di pioggia battente, che a tratti, mossa dal vento, picchiava sul crocifisso di san Marcello appoggiato a una colonna del sagrato. Il sangue dipinto del Cristo che fuoriusciva dal costato e l’acqua vera che colava lungo le membra scolpite della statua davano qualcosa di reale all’immagine: «Subito ne uscì sangue e acqua» dice Giovanni (19,34). Morte e vita secondo il simbolo giovanneo. Lo Spirito che viene consegnato sulla croce. La teologia della gloria è la teologia della croce.
Le porte spalancate della basilica facevano fuoriuscire la luce dorata dell’interno. La telecamera della TV faceva talora intravvedere brani di immagini della basilica, figure di uno splendore artistico intatto. I segni celebrati della storia. La gloria della Chiesa. Fuori un papa solo, stanco e claudicante, povero di sé, come la sua Chiesa in questo tempo, posto al centro della sproporzione delle cose, a dire ora come Pietro allora, sulla barca: «Svegliati Signore! Non lasciarci in balia della tempesta».
Questa è la scena che il mondo ha visto venerdì 27 marzo alle 18, quando il papa ha presieduto la preghiera straordinaria per chiedere la fine della pandemia del coronavirus. Una scena epocale. Il brano del Vangelo scelto era quello di Marco relativo alla tempesta placata (cf. Mc 4,35-41). Quella del papa era una parola attesa, che è andata a coprire e a reinterpretare silenzi e parole non sempre adeguate di fronte a quest’ora del mondo. E Francesco quella parola l’ha pronunciata per la Chiesa e per tutti. Una parola densa dentro a una scena simbolica, che cercava di ricomprendere in sé la dimensione drammatica e quella spirituale di un tempo inatteso e sconvolgente.
Non avete ancora fede?
«Venuta la sera…». Così inizia il brano del Vangelo di Marco e così inizia l’omelia del papa. «Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: “Siamo perduti”, così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme».
Marco ha narrato l’episodio spostandone il significato: l’attenzione non è rivolta prevalentemente alla potenza di Gesù, che placa il vento e le acque, ma alla fede dei discepoli. Quando viene svegliato, Gesù si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». I discepoli, nel loro affanno gli avevano gridato: «Non t’importa?». Gesù li salva. Ma la tempesta, prosegue il papa, «smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità».
Poi il papa fa seguire tre riflessioni sulle parole di Gesù: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Una prima parola riguarda tutti su un piano antropologico. «In questo nostro mondo, che tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato».
La seconda parola è posta su un piano morale. «Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni».
Infine la terza parola tocca il piano teologico. «Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita».
Le celebrazioni pasquali quest’anno si sono aperte di fatto con questa liturgia. Una Pasqua nel silenzio, condotta tra spiritualità e invocazione, tra affidamento alla Parola e richiami alla pietà popolare: l’immagine della madonna Salus populi romani, il crocifisso miracoloso di San Marcello, l’indulgenza plenaria. Il tridentino e il Vaticano II; la devozione ottocentesca e il post-concilio.
La celebrazione della via crucis del Venerdì santo (10 aprile) ha rivissuto la scena della piazza vuota, ma nella sera. I commenti alle stazioni erano stati affidati a coloro che vivono nel carcere di Padova. Un microcosmo di esistenze – detenuti, cappellani, guardie, magistrati, familiari di vittime – dove il male e il bene confrontandosi appaiono immediatamente determinanti. Il papa ha ascoltato e accompagnato queste testimonianze.
Solitudine del sabato
E poi la veglia pasquale, celebrata in San Pietro, ci ha restituito l’immagine non della magnificenza della basilica – la telecamera concentrata quasi sempre sul papa, ancora una volta solo – ma di una chiesa semivuota. Nessuna concelebrazione. Nessuna selezionata folla. Nessuna autorità. Nessun collegio di vescovi e cardinali. Poche persone, forse una trentina in tutto, diradate nelle panche, come nelle prime messe mattutine di paese. L’immagine di un prete in una chiesa comune.
Ed è in questo clima che il papa ha ricordato quella lunga, muta e smarrita attesa del sabato, tra il dolore del Venerdì santo e l’alba della risurrezione. Il cristianesimo non è senza redenzione, ma deve attraversare la solitudine del sabato. «“Dopo il sabato” (Mt 28,1) le donne andarono alla tomba. È iniziato così il Vangelo di questa veglia santa, con il sabato. È il giorno del Triduo pasquale che più trascuriamo, presi dalla fremente attesa di passare dalla croce del venerdì all’alleluia della domenica. Quest’anno, però, avvertiamo più che mai il Sabato santo, il giorno del grande silenzio. Possiamo specchiarci nei sentimenti delle donne in quel giorno. Come noi, avevano negli occhi il dramma della sofferenza, di una tragedia inattesa accaduta troppo in fretta. Avevano visto la morte e avevano la morte nel cuore. Al dolore si accompagnava la paura: avrebbero fatto anche loro la stessa fine del Maestro? E poi i timori per il futuro, tutto da ricostruire. La memoria ferita, la speranza soffocata. Per loro era l’ora più buia, come per noi».
Poi la notte si apre alla speranza della risurrezione, al «Non abbiate paura, non temete». Sono le parole che Dio ci ripete nella notte che stiamo attraversando, dice Francesco, parole rivolte e aperte a tutti in ogni regione dell’umanità: «Andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea», secondo il racconto di Matteo (28,10). Galilea figura delle genti, luogo della chiamata, luogo di una quotidianità nuova nel mondo. «Ognuno di noi – ha detto il papa – ha la propria Galilea. Abbiamo bisogno di riprendere il cammino, ricordandoci che nasciamo e rinasciamo da una chiamata gratuita d’amore, là, nella mia Galilea. Questo è il punto da cui ripartire sempre, soprattutto nelle crisi, nei tempi di prova».
E nel giorno di Pasqua, durante la messa, che si è tenuta in una basilica di nuovo vuota, papa Francesco, che ha celebrato all’altare della Cattedra, ha rinunciato all’omelia, sostituendola con un minuto di silenzio e ha omesso il rito del Resurrexit.
Quando ha ripreso la parola lo ha fatto nel messaggio Urbi et orbi. Un messaggio politico. Lo sguardo si è rivolto a tutte le principali questioni internazionali, ma il centro del suo discorso puntava all’Unione Europea. Cosa insolita in questo contesto e in queste occasioni. Papa Francesco, qui tornato a essere punto di riferimento mondiale, riscopre la centralità dell’Europa.
Il discorso si fa geopolitico e istituzionale: «Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative». Il papa qui non ragiona di strumenti finanziari ma di soluzioni e guarda all’intero quadro istituzionale dell’Europa. Una responsabilità dell’Europa che questo tempo comporta. Una responsabilità che l’Europa non vuole portare e non può allontanare da sé.
Gianfranco Brunelli