Il gesuita perfetto
Siamo a Roma. In una piovigginosa giornata di fine ottobre, «pungente e triste come un rimorso», Andrea esce da casa, si fa portare da un’auto pubblica in Piazza San Giovanni, entra nella Basilica lateranense e si confessa, mangia «lautamente» a una trattoria, prende un autobus e scende a Galloro, sui colli, nel noviziato della Compagnia di Gesù. «Non c’era una stilla di commozione in lui» (7).
Il romanzo è Il gesuita perfetto, di Furio Monicelli, pubblicato nel 1960 da Longanesi e ristampato nel 1999 da Mondadori con il titolo Lacrime impure. Introvabile oggi, bisogna averlo comprato a suo tempo, bisogna avere un’età per averlo letto. Chissà chi se lo ricorda, eppure è straordinario. È la storia di una vocazione ma è una vocazione pungente e triste come il cielo della prima pagina. Di Andrea si sa solo che ha condotto una vita disordinata, ma si capisce che non si tratta di niente di straordinario. La vita distratta di tanti, da giovani. Poi il taglio netto. Chiuso in un mondo nuovo, austero. Impressionante la scansione della giornata. Ogni ora ha la sua precisa destinazione, il rito obbligato, la preghiera, il passeggio, la meditazione, il riposo. E poi il silenzio, il silenzio. Chi lo conosce il silenzio? Il controllo. Il controllo dei pensieri è impossibile, ovviamente, ma il doppio esame di coscienza quotidiano ne è una eccellente approssimazione. E poi il controllo degli uni sugli altri. La delazione come forma di misericordioso controllo, ancora lui. Ma la vita del candidato gesuita non è assolutamente l’aspetto più interessante e nuovo del romanzo, anche se la sua narrazione ha una finezza rara.
Dentro ci sono i temi dei temi della nostra fede.
L’umiltà. Andrea si scontra subito con l’enfasi che nel noviziato viene data all’umiltà. Secondo i confratelli è semplicemente l’umiliazione di sé. E in effetti «il padre maestro non amava né misticismi né carismi né roba simile. Si tendeva a educare la volontà, soprattutto» (19). Ma Andrea si chiede come la vera umiltà possa «ignorare o misconoscere le proprie doti o le proprie capacità» (19) e allora chiede e ottiene dal maestro dei novizi una lezione bellissima (per ogni cristiano) sull’umiltà, che è «l’idea dantesca e francescana» rappresentata da Beatrice che è «la più eccelsa esaltazione della creatura terrena» (20). Umiltà come avanzare e non fuggire dalla propria umanità carica di doti. Come «confidenza» e non come un «viluppo di precauzioni». Bellissimo. È «l’umiltà della sua serva», del Magnificat, possiamo aggiungere.
La vita terrena. Martellante, ricorrente nei dialoghi con i superiori e i fratelli, viene esaltato un modo d’intendere la vita che ancora oggi avvelena molta nostra predicazione. Il padre maestro chiama il mondo «insulso e tenebroso» (40). E allora ci si chiede, perché esserci è cosa buona? Perché mettere al mondo figli? E infatti i figli non li mettono al mondo i gesuiti, i preti, i religiosi e le religiose. Fatale abisso da attraversare per rinuncia a generare per (meglio) affermare il bene della vita.
Sul reclutamento precoce delle vocazioni: «Troppo spesso si richiedeva a un ragazzo di diciott’anni, appena venuto dai campi, una gravità che non poteva essere che fittizia (...) Era mai possibile che un ragazzo stordito dalla pubertà apprezzasse quanto fosse bello e triste, ma da forti, cominciare a comprendere il vuoto delle cose umane e aprire l’orecchio al rapido passo dell’eternità»? (104).
Nascono riflessioni espressamente vietate dal regolamento: «Non credo che i preti, così come sono formati oggi, possano servire molto. Che cosa sanno essi della vita? Che cosa hanno veduto del mondo? Noi, fratello, siamo venuti relativamente tardi alla vita religiosa, ma che dire di coloro che, altrove, entrano nei seminari quasi bambini?» (63).
Qui parla fratel Zanna, novizio pieno di fede e talenti, acuto, sincero, insofferente della disciplina ma solo perché tende a soffocare la libertà, bene supremo del cristiano. Fa da specchio ad Andrea. Lui dice quello che Andrea non osa riconoscere a sé stesso di pensare. Dialoghi bellissimi e riflessioni così impeccabili nella loro semplicità, nel ritmo dei pensieri, come solo in un romanzo può capitare.
L’amore. Chissà. «C’era un confratello che Andrea credeva di amare in segreto di un amore che pensava non fosse del tutto limpido» (32). È fratel Lodovici. Gli riempie la mente, lo occupa e preoccupa, tanto che ne parla con il maestro dei novizi che lo rassicura: «Il cuore umano non può vivere senza affetti sensibili» (32). Fratel Lodovici si ammalerà e appena prima di morire, in un colloquio intenso invita Andrea a non coltivare alcun «giardino segreto» (80) dentro di sé perché questo impedisce la vera intimità con Dio. Ed è proprio questo che Andrea ama in lui, la sua immediata spontanea intimità con Dio. Il suo appartenere già qui in terra all’altrove a cui siamo destinati.
La fede che protegge dal mondo: «Trovava conforto in questa fedeltà costante e impassibile alla tradizione più rigida, una stupefacente emancipazione dal presente, dalla sorda angoscia che provocava in lui il lento fluire del tempo, in cui ogni giorno sarebbe stato uguale al precedente».
Le donne. Nessuna. Mai nemmeno nominata in tutto il percorso di formazione.
Chi crede davvero? Fratel Zanna è limpidamente inquieto. È mosso da un «anelito di libertà, fatto di purezza, d’insoddisfazione incessante e di tensione». Non lo trova nella Compagnia di Gesù se ne andrà. «Eppure Fratel Zanna continuava ad aver fede in Cristo» (110), mentre Andrea è un fascio di dubbi e di lucida consapevolezza di non aver trovato una casa ma un rifugio, una tana ben difesa. Non calda, ma sicura. Sarà gesuita.
E a noi lettori la straordinaria verità della narrazione fa sospendere ogni giudizio. Anche Andrea, in «questo gran trambusto che è la vita» (121), vive una forma di fede possibile. Davvero c’è più teologia in un romanzo che in mille trattati.