Misericordia infinita
Il paradosso di «san Ciappelletto»
La prima delle 100 novelle del Decameron è sunteggiata da Boccaccio in questi termini: «Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto».
La trama è conosciuta. Musciatto Franzesi (personaggio storico) è un ricchissimo commerciante in procinto di trasferirsi in Italia a seguito di re Carlo di Valois. Prima d’intraprendere il viaggio, vuole riscuotere i crediti da lui vantati nei confronti di alcuni borgognoni noti per la loro insolvenza.
Affida l’arduo compito al notaio Cepparello, un pratese che spesso soggiorna a Parigi. Costui è descritto come «il piggiore uomo forse che mai nascesse». Tutti i vizi sono suoi, ma sue sono anche astuzia e abilità. Il notaio, in Francia conosciuto come Ciappelletto, per iniziare la sua opera di riscossione si trasferisce in Borgogna ospite di due fratelli fiorentini. Là nessuno lo conosce. Dopo poco si ammala gravemente, le cure non servono a nulla; la morte s’avvicina a grandi passi. I suoi ospiti sono preoccupati; tutto sembra torcersi contro di loro: se lo mettessero alla porta sarebbero presi per spietati, se Ciappelletto muore senza confessione sarebbe sepolto in terra sconsacrata, mentre se si fosse confessato, i suoi peccati si sarebbero manifestati tali e tanti che nessun prete l’avrebbe assolto.
Un sincero affidarsi a Dio
Ciappelletto, in virtù del suo udito fine, ascolta il discorso dei due fratelli. Li chiama e li rassicura e chiede loro di far venire un prete perché vuole confessarsi. I suoi ospiti convocano un santo frate e, non fidandosi, ascoltano di soppiatto la confessione; a stento trattengono le risa. Ciappelletto infatti, con finta devozione, fa, a regola d’arte, una lunga confessione generale. Con atti di grande contrizione, si accusa soltanto di un remoto, piccolo peccato commesso nei confronti della propria madre. Poi chiede di ricevere la comunione e l’estrema unzione, dopo di che esala l’ultimo respiro. Appresa la notizia della morte, il frate, ammirato per il comportamento di quell’uomo, fa trasportare, con grandi onori, la salma in chiesa; non pago di ciò, addita a esempio il defunto con tale trasporto da far nascere un culto di san Ciappelletto. Il fatto è che chi lo prega ottiene ugualmente le grazie richieste.
Panfilo, il narratore della prima novella, la introduce e la conclude con alcune considerazioni di carattere teologico.1 Egli afferma che se si è al riparo dalle angosce, dalla fatica e dai pericoli di questo mondo, ciò avviene non certo per i nostri meriti ma solo grazie a Dio e all’intercessione dei santi. Alle creature umane è precluso afferrare il riposto segreto della mente divina; avviene perciò che, anche se ingannati da false opinioni, le persone ottengano ugualmente i benefici divini.
Le parole introduttive alla apparentemente blasfema novella di ser Ciappelletto ai nostri orecchi risuonano come una specie di giustificazione di alcune manifestazioni tipiche della pietà popolare. Si tratta di forme di devozione incapaci di reggere a un approfondito esame teologico; anzi, se giudicate con parametri rigorosi, esse appaiono pericolosamente prossime alla superstizione; tuttavia sono efficaci, oltre che rispetto a una componente psicologica soggettiva, anche in riferimento a una reale risposta divina.
Il popolo prega invocando la mediazione di Ciappelletto, una persona che fu forse il peggior uomo nato su questa terra, e tuttavia ottiene ugualmente dalla misericordia divina quanto richiede. In definitiva, quella proposta dal Decameron è una specie di reductio ad absurdum della mediazione ecclesiastica; quest’ultima può rivelarsi ingannata e ingannevole, essa però non è mai tale da porre in scacco la misericordia divina. Boccaccio fornisce in anticipo al lettore questa chiave di lettura della novella; tuttavia, alla prova dei fatti, essa non sembra essere stata valorizzata in modo adeguato dai commentatori.
Oltre a quelle introduttive vi sono le considerazioni conclusive. La «commedia umana» di Boccaccio è diversa da quella «divina» di Dante (qualifica attribuita alla Commedia proprio dall’autore del Decameron); essa non si spinge a stabilire quale sia il destino eterno delle persone. Panfilo prende atto del culto riservato a Ciappelletto e, per quanto alla mente umana tutto lasci intendere che il falso santo sia tra le grinfie del diavolo, non si esclude in modo assoluto che il notaio ingannatore si trovi tra i beati; egli infatti, all’ultimo istante, avrebbe potuto compiere un atto di contrizione; in tal caso Dio non gli avrebbe negato la propria misericordia.
Siamo di fronte a una pura ipotesi, mentre è certo che la «benignità di Dio» prevale sull’errore umano, cosicché esaudisce persino le persone che chiedono l’intercessione di un nemico di Dio credendolo un suo amico. Anche nella vita presente tutto dipende dalla grazia divina. Ciò vale pure in relazione alla situazione della brigata dei 10 giovani (7 donne e 3 uomini) che si trova salva e in buona salute mentre nella non lontana Firenze imperversa la peste. Panfilo conclude, quindi, che non resta che affidarsi a Dio.
Oltre la mediazione ecclesiale e sacramentale
Ciappelletto è sacrilego, compie una falsa confessione e riceve empiamente due «sacramenti dei vivi»: la comunione e l’estrema unzione. Eppure non si esclude che possa essere salvo, mentre s’afferma apertamente che la misericordia di Dio non è impedita da quelli che all’occhio della Chiesa sono i massimi peccati: l’uso sacrilego dei sacramenti.
In effetti, anche nei tempi in cui con più risolutezza la Chiesa dichiarava l’esclusione dalla beatitudine eterna dei non battezzati, ci si limitò a privare i «pubblici peccatori» della sepoltura in terra consacrata, senza pronunciarsi in modo definitivo sulla loro dannazione eterna.
Facendo balenare l’ipotesi che persino Ciappelletto possa godere della salvezza, Boccaccio sembra aver in mente quanto l’amato Dante aveva esplicitato attraverso alcune figure salve grazie a un pentimento «asacramentale» manifestatosi quando si trovavano già sulla soglia dell’aldilà.
Manfredi afferma che i suoi peccati furono orribili, ma egli in punto di morte si affida a colui che «volentier perdona», rivolgendosi alle «gran braccia» della «bontà infinita» misconosciute dal «pastor di Cosenza» (cf. Purgatorio III, 118-132). Da parte sua Buonconte da Montefeltro, in virtù del suo essersi affidato a Maria, ha l’anima salva grazie a un atto che al diavolo appare soltanto una semplice «lacrimetta» (cf. Purgatorio V, 100-107).2
Un istante aperto verso l’eterno può riscattare una vita intera. In definitiva, sia la dimensione ipotetica di un estremo pentimento accessibile persino a Ciappelletto, sia quella reale di grazie ottenute appellandosi all’intercessione di un falso santo, cooperano a ridimensionare il ruolo egemone attribuito alla mediazione ecclesiale e sacramentale.
Ciappelletto era un uomo pessimo e pieno di vizi; eppure si prende in un certo modo a cuore la situazione dei propri ospiti. Ci si chiede perché mai avrebbe dovuto importargli del danno subìto dai due fratelli i quali, in proprio, non erano certo stinchi di santo.
Per rispondere alla domanda rivolgiamoci a quello che, forse, è una specie di sottotesto della novella: la parabola dell’«amministratore scaltro (o avveduto)» (Lc 16,19-31). Per tirarsi fuori dagli impicci, l’amministratore disonesto chiama i debitori del suo padrone, li invita a estrarre le loro ricevute e a decurtare drasticamente l’ammontare di quanto da loro dovuto in barili d’olio o in misure di grano.
La ricevuta scritta, segno per eccellenza di garanzia («O voi che credete, quando contraete un debito con scadenza precisa, mettetelo per iscritto», Corano 2,282), si trasforma in espediente per compiere un’operazione fraudolenta. La parabola si chiude con la lode riservata dal padrone all’amministratore motivata dal suo aver agito con scaltrezza (o «avvedutamente», phronimos). Infatti «i figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce» (Lc 16,8). Il motivo della lode è l’essersi dimostrati scaltri/avveduti. Qualcosa di simile sarebbe avvenuto molti secoli dopo in Borgogna.
La falsa confessione è, sicuramente, atto più estremo di quello compiuto dall’amministratore. La novella mostra però che la misericordia divina è in grado di trarre frutto tanto dalle insidiose tortuosità della disonesta astuzia umana, quanto dall’ingannata ingenuità di tante persone devote. A tutto ciò va, però, aggiunta la considerazione secondo la quale le grandi braccia di Dio sono più estese di quelle, più piccole e rigide, della mediazione ecclesiale e sacramentale.
1 Per un’interpretazione complessiva del capolavoro del Boccaccio in chiave teologica, cf. A. Fatigati, L’opera dei dieci giorni per una lettura teologica del Decameron, Youcanprint, Lecce 2020. Si tratta di una tesi di dottorato discussa alla Facoltà teologica settentrionale di Milano nel gennaio 2020.
2 Palese nella Commedia l’antitesi tra Guido da Montefeltro, dannato a causa di una falsa e strumentale assoluzione papale (cf. Inferno XXVII, 79-129), e Buonconte, salvo senza alcuna confessione sacramentale.