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Attualità
Attualità, 22/2019, 15/12/2019, pag. 691

Paradossi della storia

Con gli occhi di un bimbo eritreo

Piero Stefani

Tra i riti d’inizio d’anno propri della vita della Chiesa cattolica c’è lo scambio d’auguri tra il papa e il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. La ricorrenza è occasione per il pontefice di pronunciare un discorso d’ampio respiro. Per quanto non abbia una dimensione religiosa, la cerimonia va sicuramente collocata nell’ambito del rito, vale a dire, come si legge nel Piccolo principe, di un avvenimento che, periodicamente, rende un giorno diverso dagli altri. Qui non si tratta però del giovedì, quando i cacciatori ballano con le ragazze consentendo alla volpe di mangiar uva. L’occasione capita solo una volta all’anno nel mese di gennaio, giorno nel quale ambasciatori in marsina e signore con abito lungo e velo scuro sono ricevuti da sua santità nella Sala regia in Vaticano.

Abbiamo evocato Saint-Exupéry, tuttavia il piccolo episodio (risalente a qualche anno fa) a cui ora ci riferiremo tende, quasi inevitabilmente, a far tornare alla mente un’altra favola (questa volta scritta da Andersen) in cui soltanto un bambino osa dire quello che tutti vedono. Un bimbo eritreo è da qualche tempo adottato da una famiglia italiana. Come tutti, anche lui guarda la televisione. I suoi occhi sono però vergini rispetto a molte consuetudini a noi familiari.

Verso l’inizio dell’anno, il telegiornale manda in onda un servizio dedicato al ricevimento del corpo diplomatico da parte del sommo pontefice. È una sala contraddistinta da spazi enormi, da marmi, da guardie svizzere munite di alabarde, da alte uniformi; al centro dello sfarzo, vi è un uomo vestito di bianco. Fissando il papa il bimbo, rivolto al padre adottivo, chiede: «Ma è ricco quello lì?». Non so quale sia stata la risposta. Per onestà devo aggiungere che il genitore adottivo è un pastore appartenente a una Chiesa protestante non storica. A priori non è dato escludere tanto l’esistenza di qualche interessata accentazione nel riferire la battuta, quanto il fatto che, più o meno consciamente, il bambino eritreo abbia introiettato un clima domestico non cattolico.

La persona e il ruolo

Resta uno dei grandi problemi della storia della fede comprendere come, dalla predicazione scalza ed errante di un uomo la cui vita finì sul patibolo, sia sorta una istituzione che tuttora ha voce in capitolo tra i grandi della terra. Per spostare davvero i termini della questione non basta ascoltare dalla loggia di San Pietro o da parrocchie periferiche, carceri, centri di accoglienza sparsi per il mondo intero parole di predilezione evangelica per i poveri.

Lo stile e la comunicazione immediati di papa Francesco non risolvono il problema. Non lo fa neppure l’indubbia sincerità della sua testimonianza e la forza di alcune sue parole. A comportarsi umanamente e semplicemente e a parlare in modo evangelico è pur sempre un papa qualificato come vescovo di Roma, vicario di Gesù Cristo, successore del principe degli apostoli, sommo pontefice della Chiesa universale e sovrano dello Stato della Città del Vaticano.

Quando un diseredato parla amichevolmente con un altro diseredato nessuno lo giudica una persona dotata di particolari doti di umiltà o di solidarietà. Se un re della finanza, un capo di stato o un papa s’intrattengono in modo amichevole, senza ostentazioni o finzioni, con un poveraccio sono considerate, invece, persone ricche di umanità. In questi casi la carica e la posizione sociale vengono relativizzate e confermate a un tempo.

La persona potente o il personaggio autorevole si comportano come individui qualsiasi senza per questo diventare uomini qualunque. La loro condizione altolocata è necessaria per evidenziare la differenza tra il loro stile e il comportamento consueto di chi si trova in simili posizioni. Ma qual è il volto più vero di queste persone: quello legato al loro ruolo prestigioso o quello rivelato dalla loro autentica partecipazione umana? La domanda non può ricevere una risposta secca: l’aspetto più rilevante sta proprio nell’intreccio tra le due componenti. Il modo di comportarsi riguarda lo stile (parola da qualche tempo assurta pure a dignità teologica)1 e non già la carica che resta pienamente confermata.

Come la recezione dell’annuncio evangelico abbia portato a erigere strutture che fanno parte integrale dei poteri di questo mondo è una questione storicamente spiegabile; il problema resta invece sostanzialmente incomprensibile nell’ottica della nuda fede.

L’osservazione del bambino eritreo induce a chiederci che rapporto ci sia tra il Vangelo e l’atto con cui il sovrano dello Stato della Città del Vaticano riceve solennemente i rappresentanti di quasi tutti gli stati del pianeta, ivi compresi quelli dotati di armi nucleari il cui semplice possesso è stato dichiarato immorale da parte di papa Francesco.2 L’accostamento ora proposto, se letto in modo sbrigativo, rischia di venire catalogato come una rude battuta polemica; di contro, se assunto in una chiave più profonda, pone la questione cruciale dell’irrisolto rapporto che esiste tra istituzione e profezia.

L’intreccio costituzionale tra Santa Sede e Città del Vaticano, nato con i Patti lateranensi del 1929, rende questa duplice realtà un caso senza paragoni nell’ambito del diritto internazionale. Non per nulla, fin dalla sua fondazione, la forma costituzionale del nuovo Stato fece insorgere molti intricati problemi. Essi costrinsero il principale responsabile del progetto costituzionale, Francesco Pacelli (fratello del futuro papa), a chiedere l’aiuto dell’illustre giurista Federico Cammeo.3 Per quanto la situazione sia del tutto particolare, resta comunque ferma la volontà da parte della Chiesa cattolica romana di mantenere la propria forma-stato.

Sovranità e missione spirituale

Negli anni Sessanta del Novecento, il 20 settembre 1870, giudicato a lungo una catastrofe, fu ritenuto da Paolo VI data provvidenziale. Il sensus Ecclesiae di allora si trovò concorde su questa valutazione. I Patti lateranensi crearono la Città del Vaticano, minuscolo stato di 44 ettari.

Da allora la Chiesa cattolica si è, in definitiva, sempre conformata alla linea subito indicata da Pio XI: occorreva un territorio, per quanto piccolo, al fine di godere di una sovranità giudicata presenza indispensabile per esercitare, liberamente, la propria missione spirituale.

Decenni dopo, nel suo discorso alle Nazioni Unite, Paolo VI avrebbe detto: «Voi avete davanti un uomo come voi; egli è vostro fratello, e fra voi rappresentanti di stati sovrani, uno dei più piccoli, rivestito lui pure, se così vi piace considerare, d’una minuscola, quasi simbolica sovranità temporale, quanto gli basta per essere libero di esercitare la sua missione spirituale, e per assicurare chiunque tratta con lui, che egli è indipendente da ogni sovranità di questo mondo».4

Bisogna allora concludere che per essere indipendente da ogni sovranità occorre averne una in proprio, per quanto minuscola? Per non conformarsi al mondo è necessario esserne parte? Il grumo contraddittorio non si risolse neppure nell’aria respirata dalla Chiesa conciliare.

Sostenere che un minimo di sovranità statale è indispensabile per esercitare in modo libero la propria missione spirituale significa affermare, implicitamente, che tutte le altre Chiese cristiane, per non parlare di altre religioni, non sono libere. Le parole di Paolo VI non avevano, di certo, queste intenzioni; eppure la conclusione si impone da sé.

D’altro canto, per le comunità religiose il rischio di possibili condizionamenti a opera del potere statale è un’eventualità effettiva. Esempi attuali non ne mancano neppure in ambito cristiano. Con tutto ciò, in un’epoca come la nostra, contraddistinta dal pluralismo religioso, non è improprio chiedersi se la forma-stato che la Chiesa cattolica ritiene necessaria per svolgere la propria missione spirituale non costituisca più un’anomalia che una garanzia. 

Come ammonisce il 20 settembre 1870 (al pari di molti altri avvenimenti), solo eventi storici subiti sono in grado di spostare, in modo decisivo, l’asse portante su cui cammina la Chiesa cattolica romana. I processi autonomi di riforma, il più delle volte, non hanno mai provocato svolte davvero epocali.

Le cose stanno diversamente quando la Chiesa cattolica è costretta a rispondere a quanto, in proprio, non avrebbe mai desiderato sperimentare. Ciò avvenne, per esempio, nel XVI secolo: la Riforma cattolica fu un’istanza autentica, ma la Controriforma fu per secoli più efficace.

È facile previsione affermare che ciò avverrà, in tempi relativamente brevi, anche per l’ammissione generale al sacerdozio ordinato di viri probati. In questo caso si tratterà di una decisione imposta dalla crisi delle vocazioni propria di società sempre più secolarizzate. Stante la situazione attuale, è invece arduo prevedere un’epoca in cui il papa potrà presentarsi al mondo soltanto in base all’unica qualifica che gli è davvero propria: vescovo di Roma. Tuttavia, per definizione, nella storia non vi è nulla di eterno.

 

 

1 Cf. C. Theobald, Cristianesimo come stile, 2 voll., EDB, Bologna 2009.

2 Cf. Francesco, Discorso a Hiroshima, 24.11.2019; cf. in questo numero a p. 646; Regno-doc. 21,2019,641s.

3 Cf. F. Cammeo, Ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano, LEV, Città del Vaticano 2005. Va ricordato che questo eminente giurista sarebbe stato espulso dall’università italiana a causa delle Leggi razziali del 1938, sarebbe morto in solitudine l’anno successivo, mentre sua moglie, sua figlia e sua cognata, lungi dal trovar rifugio in Vaticano, sarebbero state deportate e uccise ad Auschwitz nel 1944.

4 In L’Osservatore romano, 6.10.1965, 4.

Tipo Parole delle religioni
Tema Teologia Ecumenismo - Dialogo interreligioso
Area
Nazioni

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