La salvezza e il racconto
Tutti ciechi sono gli uomini e le donne nei racconti di Flannery O’Connor (Tutti i racconti, Bompiani, Milano 2017) e nella vita. E nessuno di loro e di noi lo sa. Bisognosi di un Signore che sputi per terra e con il fango ci restituisca la vista rinnovando per noi la creazione. Ma Gesù non cammina oggi sulle nostre strade d’asfalto, non c’è polvere con cui impastare, e allora a chi tocca aprirci gli occhi?
Ci sono quelli che con determinazione e volontà vogliono fare il bene. Nessuna somiglianza con la torpida coscienza di Donna Prassede del Manzoni. Il protagonista del racconto «Tutti gli storpi entreranno per primi» è Sheppard, un giovane vedovo ben dinamico, colto ma senza pretese di intellettualismi, sa un poco di psicologia, lavora nel sociale, si dice oggi, esercita anche un intelligente autocontrollo sul bisogno naturale di vedere i risultati delle sue buone azioni.
Lo incontriamo tutto concentrato a creare un’opportunità di vita a Rufus Johnson, un ragazzino di strada, uscito dal riformatorio, forse picchiato dal nonno, di certo in mille modi bugiardo, impastato d’astuzia e opportunistiche conoscenze bibliche con cui gioca a infilzare le certezze di Sheppard. Rufus Johnson è povero tanto da dover cercare cibo nei bidoni della spazzatura. E storpio.
Agli occhi di Sheppard, all’altro capo dell’altalena della fortuna c’è suo figlio Norton, un bambino di dieci anni biondo e tozzo, fortunato perché ha casa, un padre, i piedi in ordine. È accudito e pasciuto. Da quando ha perso la madre anche la vita del bambino è tutta concentrata, ma in sé stessa, nel conservare un qualche residuo possedere. Soldini soprattutto. Vende semi e conta e riconta le monetine conquistate.
L’idea che il figlio non veda la propria condizione di privilegio infligge un costante fastidio al padre, che lo provoca e rimprovera. A volare in alto nell’attenzione di Norton è Rufus Johnson e solo lui. Al lettore appare chiarissima la cecità di Sheppard. Non vede il dolore di suo figlio per la perdita della mamma, non vede la sua disperazione atroce, il pianto senza misura che lo devasta al solo sentir nominare la mamma. Non vede le bugie di Rufus Johnson. Non vede la propria condizione. Il finale ci trafigge. Dio salvami da questo, ci viene da invocare.
«Brava gente di campagna» racconta di Joy, unica figlia della signora Hopewell. Joy è una donna di trent’anni, laureata, senza una gamba. Sua madre la tratta da bambina ma lei è sapiente e ragionatrice. Riflette e comprende le dinamiche di asfissiante conformismo, qualunquismo, mancanza totale di pensiero e consapevolezza in cui la madre, la sua domestica signora Freeman e le due figlie di lei si sono completamente accomodate.
«Nulla è perfetto», «Così è la vita», «Anche gli altri hanno le loro opinioni», «Tutti sono diversi», «Ce ne vuole di tutti i tipi, per fare il mondo». A questo genere di conversazioni con cui un bel po’ di persone d’ogni tempo si riempie le giornate Joy non reagisce, gli «occhi azzurro ghiaccio» fissi altrove, «con l’aria di chi è riuscito a diventar cieco con un atto di volontà e ha intenzione di rimanere tale». Ma Joy cieca non è e le capita di lasciar deflagrare il risentimento verso la madre che la circoscrive giorno dopo giorno dentro una vita senza orizzonte: «Donna! Ti guardi mai dentro? Ti guardi mai, dentro, per vedere quel che non sei? Dio!».
E così quando un abbastanza giovane venditore di Bibbie, alto e secco, un po’ filosofo e anche malato, come presto s’affretta a dire, suona alla porta con una grossa valigia che lo fa pendere da una parte, Joy non ci casca, al contrario della madre. Non ci casca nemmeno quando accetta una passeggiata.
Lo misura, legge, interpreta, anticipa: «Siamo tutti dannati, ma alcuni di noi si sono strappati le bende dagli occhi e vedono che non c’è niente da vedere. È una specie di redenzione».
Finale terribile anche qui. E alla domanda «chi è cieco e chi vede qualcosa?», l’unica risposta è che tutti ma proprio tutti sono ciechi e, forse, solo il male apre gli occhi, ma sempre troppo tardi.
Il razzismo sudista è lo sfondo di gran parte dei racconti. «Il negro artificiale» è la storia di un nonno dichiaratamente razzista che vuole educare il nipote a un purissimo assoluto razzismo. Razzista non dichiarata è anche la mamma di Julian, la protagonista di «Punto Omega», che non va in autobus da sola di sera da quando hanno integrato i negri e perciò costringe Julian ad accompagnarla e che è sicura che «i negri stavano meglio, quando erano schiavi», ed è contenta perché ha l’autobus tutto per sé, almeno finché non sale una negra con un bambino bellissimo e un cappello identico al suo.
È razzista anche Julian, tanto e più di lei, anche se detesta il razzismo greve della madre, e si compiace di essere «riuscito bene» malgrado la madre tremenda e non vede, non vede come sia tremendo il suo sogno di usare un negro, l’amicizia con un «eminente professore o un avvocato nero» per dare una lezione alla madre. Il razzismo è dentro ognuno di noi, male personale e intimo che pretende redenzione.
Quel che è sicuro, i racconti non lasciano scampo, è che da soli non possiamo tornare a vedere. Non c’è salvezza, se non quella di raccontare. E Flannery O’ Connor divinamente lo fa.