Italia - Terzo settore: la riforma che non c’è
Conta la forma giuridica o l’interesse generale? Correttivi in corsa a un dibattito mancato
Tra i lasciti dei governi di centro-sinistra all’attuale maggioranza c’è il nodo della riforma del Terzo settore, il D.lgs. 117/2017. Per la sua attuazione rimangono ancora inevasi importanti provvedimenti – tra cui il fondamentale Registro unico nazionale del Terzo settore.
Tra i lasciti dei governi di centro-sinistra all’attuale maggioranza c’è il nodo della riforma del Terzo settore, il D.lgs. 117/2017. Per la sua attuazione rimangono ancora inevasi importanti provvedimenti – tra cui il fondamentale Registro unico nazionale del Terzo settore – mentre incombe il termine del 3 agosto 2019 entro il quale organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS), organizzazioni di volontariato (OdV) e associazioni di promozione sociale (APS) possono modificare i propri statuti per adeguarli alle nuove regole, rendendo possibile l’iscrizione al Registro che… non c’è.
In questo contesto l’Assemblea generale dei vescovi italiani ha espresso – nelle parole del suo presidente card. G. Bassetti – forti perplessità circa questa normativa. Il presidente ha affermato nell’Introduzione pronunciata lo scorso 21 maggio: «Non si può che rimanere sconcertati» di fronte a un provvedimento che interviene «senza giustificazione alcuna per raddoppiare la tassazione sugli enti che svolgono attività non commerciali. Al governo chiediamo non sconti fiscali o privilegi, ma regole idonee e certe, nel rispetto di quella società organizzata e di quei corpi intermedi che sono espressione di sussidiarietà; risposta di prossimità offerta al bene di ciascuno e di tutti; risposta qualificata dall’esperienza e dalla creatività, dalla professionalità e dalle buone azioni».
In realtà, il cardinale ha fatto riferimento a un provvedimento non inserito nella riforma, ma nella legge di bilancio 2019, relativo al raddoppio della tassazione IRES che passa dal 12 al 24%, poi parzialmente corretto dal governo nel cosiddetto decreto Semplificazioni, sull’onda delle polemiche suscitate. Tuttavia la correzione ha lasciato fuori gli enti ecclesiastici, in particolare per quanto riguarda i patrimoni immobiliari non utilizzati per le finalità previste dalla nuova normativa. Questa selettività tra gli enti non commerciali, sì, è un effetto del D.lgs. 117/2017.
Bassetti ha evidenziato che «restano ancora antichi pregiudizi per le attività sociali svolte dal mondo cattolico; pregiudizi che non consentono d’avere ancora una normativa adeguata a rispondere alle esigenze di centinaia di migliaia di persone, dedite al prossimo e alle persone bisognose. Si tratta di un mondo di valori e progetti realizzati, di assistenza sociale, di servizi socio-sanitari, di spazi educativi e formativi, di volontariato e impegno civile. In una società libera e plurale questo spazio dovrebbe essere favorito e agevolato in ogni modo».
In sostanza il presidente della CEI ha espresso una critica frontale al D.lgs. 117/2017: il passaggio dalla dizione «organismo non lucrativo» alla nuova di «ente di terzo settore» ha modificato profondamente la logica giuridica che rende possibile l’accesso a una legislazione di vantaggio sul piano fiscale.
Infatti, il cosiddetto decreto ONLUS riconosceva come «organizzazioni non lucrative di utilità sociale» gli enti «i cui statuti o atti costitutivi (…) prevedono espressamente lo svolgimento di attività in uno o più dei seguenti settori: assistenza sociale e socio-sanitaria; assistenza sanitaria; beneficenza; istruzione; formazione; sport dilettantistico; tutela, promozione e valorizzazione del patrimonio artistico e storico; tutela e valorizzazione della natura e dell’ambiente; promozione della cultura e dell’arte; tutela dei diritti civili; ricerca scientifica di particolare interesse sociale».
Funzione vince sulla forma
La ratio del provvedimento era innestata nel solco costituzionale del riconoscimento e della garanzia delle formazioni sociali, che venivano tutelate in ragione della loro funzione e non in base alla forma giuridica assunta. In altri termini questi soggetti venivano semplicemente riconosciuti dalla legge e ne veniva garantita la funzione sociale, attraverso una disciplina fiscale di vantaggio.
Il decreto ONLUS non è stato esente da critiche per il pericolo che quel regime fiscale agevolato comportasse un incentivo al camuffamento di soggetti economici che operano a scopo di lucro in falsi enti no profit, al fine di godere indebitamente di queste agevolazioni (cf., tra gli altri, G. Moro, Contro il non profit, Laterza, Roma – Bari 2014).
Centri sportivi, ristoranti, club privati, palestre e centri ippici – trasformando surrettiziamente i clienti in soci – finivano per entrare in maniera illegittima in quella previsione normativa. Sotto un altro profilo, la legislazione precedente aveva creato tre canali distinti di soggetti sociali (volontariato, cooperazione sociale e associazionismo), lasciando anche qui spazio a fenomeni di transizione opportunistica motivata dalla maggiore convenienza in termini di tutele, piuttosto che da ragioni connesse alla identità dei soggetti.
Per scongiurare ciò, la via che il governo Renzi aveva scelto era stata quella della creazione di un unico profilo tutelato – quello dell’ente di Terzo settore (ETS) –, la fissazione di requisiti stringenti richiesti agli enti per accedere alle agevolazioni, il rigore dei controlli e la pesantezza e certezza delle sanzioni per chi violasse queste norme, anche attraverso il riconoscimento limitato ad alcune tipologie di forme giuridiche.
Infatti, l’art. 4, § 1, del citato D.lgs. 117/2017 definisce ETS «le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, e iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore».
La nuova normazione, utilizzando il criterio dell’interesse generale, lascia maggiori margini rispetto alle attività svolte, ma chiude sulle tipologie di enti. E soprattutto – nel tentativo di lasciare fuori dalla porta comportamenti opportunistici – non si limita a regolare l’accesso al recinto delle tutele, ma crea una serie di meccanismi che di fatto modificano l’operatività degli enti coinvolti, innescando una tensione – estranea alla logica costituzionale – tra il riconoscimento della natura da questi liberamente assunta e la fruizione dei benefici.
E gli enti ecclesiastici?
Il meccanismo ONLUS, seppure problematico, rispettava la natura e il funzionamento degli enti riconosciuti; il meccanismo ETS entra nelle dinamiche di funzionamento, non solo in termini di maggiore complessità amministrativa, ma anche d’incertezza per quanto riguarda i benefici fiscali.
Il caso più eclatante riguarda la definizione di attività commerciale, in relazione a quelle d’interesse generale (che sono le attività che l’ETS deve svolgere prevalentemente). L’art. 79, § 2 stabilisce che le attività d’interesse generale non sono considerate di natura commerciale quando: sono svolte a titolo gratuito; oppure sono svolte anche dietro pagamento, sempre che l’ammontare del corrispettivo richiesto (e degli eventuali contributi pubblici) non superi i costi effettivi (che comprendono sia i costi diretti che quelli indiretti relativi alla specifica attività).
Peraltro se l’ETS svolgesse attività d’interesse generale al di fuori dei requisiti appena citati, essa verrebbe considerata attività commerciale. Il Codice considera, oltretutto, come commerciali anche le eventuali attività diverse che l’ETS può svolgere, ma solo in maniera secondaria e strumentale rispetto alle attività d’interesse generale.
Tutto questo produce almeno due effetti: l’accesso alla fiscalità di vantaggio comporta una maggiore complessità amministrativa, quindi un conseguente aumento dei costi di gestione; inoltre l’esclusione delle attività diverse dal regime tutelato pone interrogativi riguardo alla sostenibilità delle opere gestite da enti ecclesiastici. Questi attraverso una differenziazione di attività generavano forme di redistribuzione interna, tali da garantire sostenibilità. In un sistema irrigidito di controlli, il tema è quello della potenziale incompatibilità e insostenibilità dell’ente ecclesiastico all’interno di questo nuovo quadro normativo.
D’altro canto la preoccupazione espressa dalla Conferenza episcopale sconta un limite: la sua tempistica. Il processo di riforma è stato avviato da anni. Forse una presenza più incisiva nel confronto istituzionale, mentre si delineava questo tipo di soluzioni, avrebbe evitato o limitato questi esiti, che oggi si possono superare con un intervento correttivo a tempo ormai scaduto.
Sullo sfondo emergono alcune questioni. La prima riguarda il dato che le maggioranze che intendano fare riforme significative, devono assumersi l’onere di forme di concertazione con i soggetti sociali e di un timing compatibile con la propria legislatura, altrimenti si rischia d’innescare tortuosi percorsi attuativi, che potrebbero vanificare le spinte riformatrici.
Sul piano ecclesiale emerge sia un difficoltoso riconoscimento di forme come quelle degli enti ecclesiastici da parte di culture giuridiche provenienti da altre tradizioni nazionali, maggioritarie in ambito comunitario; sia la questione della rilevanza del mondo cattolico organizzato in termini di advocacy istituzionale e, come corollario, la sua capacità di elaborare e sostenere coralmente alcune istanze.
In sintesi emerge una tensione di un modello di presenza ecclesiale – storicamente dato, di cui l’ente ecclesiastico è una sorta di epifenomeno – in uno scenario profondamente mutato, tensione non sempre pienamente e consapevolmente compresa in ambito ecclesiale. Se una soluzione verrà trovata, in ogni caso una riflessione più ampia sulle forme della presenza della Chiesa italiana nel futuro prossimo del nostro paese appare non più rinviabile.
Francesco Marsico