Italia - Elezioni 2019: la solitudine dell’elettore
Intervista ad Arturo Parisi
Il risultato delle ultime elezioni europee, il voto che, dopo l’insediamento del nuovo governo, abbiamo atteso per un anno intero come un giudizio di conferma e d’appello, ci ha messo di fronte a un caso che nella politica italiana è unico. Dentro la stessa area di governo un partito raddoppia e uno dimezza.
Il risultato delle ultime elezioni europee, il voto che, dopo l’insediamento del nuovo governo, abbiamo atteso per un anno intero come un giudizio di conferma e d’appello, ci ha messo di fronte a un caso che nella politica italiana è unico. Dentro la stessa area di governo un partito raddoppia e uno dimezza.
In un solo anno il rapporto di forza tra Lega e Movimento 5 Stelle (M5S), i due partiti contraenti il patto di governo, si è rovesciato. Un anno fa intitolammo l’intervista ad Arturo Parisi sulle elezioni politiche del 2018 a partire dall’affermazione che quella consultazione corrispondeva sul piano quantitativo a un cataclisma e su quello qualitativo a una apocalisse (Regno-att. 8,2018,193).
– Professor Parisi, in che misura questo risultato conferma quel giudizio?
«Da una parte lo conferma, dal-
l’altra ci costringe e ci aiuta a precisarlo, con l’aiuto degli elementi che questo passaggio elettorale ci mette a disposizione in misura molto maggiore che in quello dello scorso anno. A differenza delle politiche del 2018, la lettura dell’ultimo voto è infatti arricchita dalla sua collocazione nel contesto europeo e messa alla prova dallo svolgimento contestuale nel nostro paese di un turno di elezioni regionali e di un numero significativo di comunali che si sono appena concluse, Sardegna esclusa».
– Analizzando i dati, in che misura possiamo considerare concluso quel terremoto che, per le sue dimensioni, l’aveva indotta a parlare di cataclisma?
«Diciamo innanzitutto che nessuno può considerarsi al sicuro da nuove scosse. Perfino i pochi le cui case o casette sembrano esser rimaste in piedi più o meno in continuità col passato. Ma ancor di più quelli che hanno visto i loro edifici profondamente ridefiniti a seguito di ulteriori sopraelevazioni o di crolli improvvisi. Consiglierei a tutti di riservarsi un riparo per le emergenze. Soprattutto alle forze coinvolte o travolte dai movimenti più significativi. La stagione di quelli che venivano definiti gli zoccoli duri sotto i quali ognuna delle diverse forze in campo riteneva di non poter scendere ulteriormente è definitivamente alle nostre spalle. E assieme a essa è passata l’illusione che a un’appartenenza stabile ne possa seguire una diversa ma altrettanto stabile.
Stabilità apparente
E tuttavia, al di là del cambiamento delle misure, davvero rilevanti, nel seguito delle principali forze politiche – penso soprattutto a quelle di governo – il responso delle urne trasmette l’impressione di una stabilizzazione.
Se in qualche modo l’ultimo risultato elettorale ha determinato nel suo complesso uno choc psicologico inferiore a quello dello scorso anno, questo non è certo per il minor rilievo quantitativo degli spostamenti di voto, assolutamente comparabili con la rivoluzione dello scorso anno. E non è neppure perché siamo arrivati alla prova del 26 maggio guidati da un’ipotesi verificata in modo incrementale lungo gli infiniti mesi successivi all’insediamento del nuovo governo.
Anche i denigratissimi sondaggi, più capaci di misurare il passato che di predire il futuro, con la raffica di numeri che settimana dopo settimana venivano sfornati ci avevano informato che qualcosa stava accadendo. Ma più che altro eravamo stati avvertiti dai risultati delle elezioni regionali e locali che si erano svolte nei mesi precedenti le europee. All’origine della minore sorpresa rispetto all’anno scorso sta quindi il fatto che, questa volta più che mai, la lettura dei dati si è fondata sul confronto con le aspettative piuttosto che con i precedenti risultati ufficiali. E, almeno nelle tendenze, le aspettative sono state soddisfatte.
Se sorpresa vi è stata, non è per il contrasto con le attese consolidate nei mesi precedenti ma per quelle alimentate alla vigilia del voto dalla improvvisa drammatizzazione nella rappresentazione pubblica della diversità delle posizioni tra le due forze di governo. Una drammatizzazione che in troppi commenti sembrava aver prodotto, attraverso il rafforzamento delle rispettive identità, una riduzione dell’enorme distanza che andava separandole, grazie a un contenimento della crescita della Lega e a una contemporanea ripresa del M5S.
Ma che i rapporti di forza si fossero nel tempo rovesciati, portando alla guida della maggioranza la Lega di Salvini, che era all’inizio il partner di gran lunga minore, era da tempo scontato. Quello che si attendeva dalle urne era soltanto la certificazione ufficiale delle misure dell’avvenuto rovesciamento di forze. Questo nell’immediato. Se lo choc dell’anno scorso non si è ripetuto è però per una ragione più profonda. Più profonda delle aspettative della vigilia, ma anche della valutazione dei cambiamenti intervenuti nel corso dei mesi precedenti».
– Di che ragione si tratta? Cos’è cambiato nei mesi scorsi?
«Sono convinto che il vero motivo è che anche a livello di percezione collettiva va affermandosi un diverso paradigma per quel che riguarda le mutazioni delle posizioni politiche. Al di là delle definizioni più o meno dotte, la gente ha capito che quello che si è prodotto nell’ultimo decennio e che si è manifestato per la prima volta con forza con l’esplosione del voto grillino nelle elezioni del 2013, e confermato nelle elezioni europee del 2014, che premiarono e stordirono Renzi, e infine nel voto del 2018 è, appunto, un cataclisma».
– Sta dicendo che il cataclisma è una categoria di comportamento?
«Il modello di riferimento che era oggetto di congetture intellettuali è entrato nella vita quotidiana, come modello che descrive gli accadimenti collettivi in corso, ma allo stesso tempo prescrive i comportamenti individuali. Mano a mano che vedo che, a differenza del passato, nei comportamenti degli altri nulla è più scontato, anche il mio voto cessa di essere scontato. Una volta che l’attesa perde il suo fondamento, assieme a essa viene meno anche la sorpresa. Assieme ai comportamenti cambiano cioè i modelli conoscitivi.
Solo questo spiega la relativa freddezza di fronte alla enormità dei cambiamenti ai quali stiamo assistendo da 5 anni. Chi torna alla definizione di terremoto col quale fu salutato a metà degli anni Settanta un incremento nei consensi al Partito comunista (PCI) di 5 punti percentuali e al dibattito che ne seguì tra studiosi e commentatori non riuscirebbe a spiegare se stiamo parlando dello stesso fenomeno e dello stesso paese.
Un partito che più o meno in un anno muovendo da 5.705.925 voti (il 17,3%) arriva a raccoglierne 9.153.634 (il 34,3%), e per di più mentre la partecipazione elettorale cala vistosamente, dà già da riflettere. Se non bastasse, si consideri poi che questa galoppata muove da un livello che 6 anni prima corrispondeva a 1.390.534 voti (di un poco superiore al 4%) e dentro una gara nella quale altri partiti crescono e arretrano con quantità che un tempo avremmo considerato impensabili. Con dimensioni che ci chiedono di abbandonare i decimali e le unità con le quali i partiti si contendevano in passato il diritto a proclamarsi volta a volta vincitori per passare ora a utilizzare come misura il decile percentuale.
Come accontentarsi di guardare il singolo dato, che oltretutto in un’elezione come quella europea ha conseguenze istituzionali modeste, e non allargare invece lo sguardo passando dall’albero alla foresta?».
Il cataclisma continua
– È in questo che vede la conferma di quel cataclisma?
«Sì. Mutuando l’immagine dalle scienze della natura, sembra che si sia finalmente capito che il voto dell’anno scorso ha segnato e reso evidente il passaggio della materia sociale da uno “stato” a un altro. Al seguito di Zygmunt Bauman si è anche troppo insistito nella metafora che vorrebbe la nostra società coinvolta quasi in una trasformazione fisica, passando da uno stato solido a uno liquido.
La verità è che oggi quello che nei “passaggi di stato” dovrebbe essere definito una fusione, sembra assomigliare più alla vaporizzazione, il passaggio appunto da liquido ad aeriforme. Metafora per metafora ritengo che quella che Marshall Berman mise al centro della sua riflessione sulla modernità, traendola dal Marx del Manifesto del partito comunista, sia più capace di quella di Bauman di descrivere il processo in corso. “Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria”, scriveva Marx per dire che tutti i rapporti stabili si dissolvono.
Prima, od oltre, che essere uno strumento che decide della scelta e della legittimazione delle persone preposte al governo della cosa pubblica, le elezioni sono un’occasione preziosa, quasi un esperimento, per capire la società e le sue trasformazioni. Più che per gli esiti politico-istituzionali conviene perciò leggerle da questo punto di vista».
– Non dunque il passaggio da un assetto stabile a un altro. Ma la conferma della dissoluzione della stabilità degli assetti passati. Uno dei cambiamenti che troppo spesso chiamiamo con leggerezza «epocali». Mi sembra evidente che non basta un solo dato per descriverlo e neppure una sola consultazione. Ma, allargando lo sguardo anche a un decennio, un cambiamento di questo rilievo ci sta un po’ stretto. Non le pare?
«Certamente. Niente succede all’improvviso. Tutto inizia sempre molto prima e soprattutto finisce molto dopo di quel che appare. Limitandomi a dar conto di quello che ho vissuto e studiato, debbo tuttavia ricordare a me stesso che già alla metà degli anni Settanta mi permisi di segnalare l’inizio dell’attuale passaggio di fase, mentre la generazione post-bellica concludeva il suo primo trentennio di vita e nelle culle cominciava a far sentire i primi vagiti quella dei protagonisti della stagione politica attuale.
Traendo spunto dal voto – quello tra il 1975 e il 1976 – che sembrava rinnovare e consolidare quel “bipartitismo imperfetto” fino ad allora incarnato dal PCI e dalla Democrazia cristiana, in un testo pubblicato assieme a Gianfranco Pasquino segnalai che dietro alle apparenze di un elettorato inquadrato dai due principali partiti, con quantità in quel momento indiscutibili, la qualità del rapporto tra partiti ed elettori andava mutando significativamente.
Mentre gli elettori definiti “di appartenenza” andavano infatti riducendosi, crescevano quelli che indirizzavano il loro consenso a partire da motivazioni riconducibili all’opinione “sul” partito o ai rapporti di scambio “col” partito».
Finita l’epoca dei «nostri»
– In che misura i partiti tennero conto di questa avvertenza?
«Poco o nulla. Troppo a lungo e in troppi, soprattutto a sinistra, continuarono a descrivere gli elettori e i territori d’insediamento come “nostri”, quasi fossero cosa a loro stabilmente appartenente, e a considerare altrettanto stabili gli insediamenti territoriali tradizionali. E continuarono, volta a volta, a illudersi che gli occasionali deflussi fossero da interpretare come militari in “libera uscita”, destinati a tornare prima o poi alle proprie caserme, dimenticando che anche queste andavano pian piano in rovina: poco male fino a quando la generazione nella quale era cresciuta l’appartenenza rappresentò la maggioranza degli elettori!
Ma pian piano, inesorabilmente i vagiti dei bambini successivi alla prima generazione post-bellica divennero parole e soprattutto la corrispondente quota di elettori crebbe fino a modificare profondamente i rapporti di forza demografica all’interno dell’elettorato. Le divise furono pian piano dismesse, i comandi ignorati o incompresi, le caserme dimenticate. E tuttavia di fronte all’irruzione delle nuove proposte politiche, alla recente esplosione del M5S ma ancora alla comparsa della Lega e, per più versi, della stessa Forza Italia, tutte formazioni estranee alla storia politica della Costituente, continua a capitare d’assistere alla contesa su quante di esse “appartengano” alla sinistra o alla destra, o di esse debbano essere considerate costole o filiazioni. Ripeto: “appartengano”. Non se siano su un tema o un altro più o meno consonanti con l’uno o con l’altro. Ma “appartengano”.
Così ai confini dei partiti passati si è andata accampando una quantità crescente di elettori. Prima soltanto estranea, poi sempre più ostile. Prima, riconducibile alla marginalità, poi, alla esclusione. Una camera a gas che attendeva solo che qualcuno accendesse un cerino con la scusa di fare luce. E non a caso Beppe Grillo, per definire la sua funzione scelse l’immagine del “catalizzatore”.
È a causa di questa pretesa e di questo equivoco che le attese costruite sul passato sono state volta a volta smentite. Quella che ha immaginato i 5 Stelle come pecorelle smarrite dai recinti della sinistra e ha invece dovuto prendere atto nel voto europeo, ma ancor più nei ballottaggi delle elezioni amministrative, della loro estraneità e indisponibilità a tornare all’ovile. Quella che ha immaginato la Lega per Salvini incapace di parlare al Sud a causa della radice e del profilo ancora antimeridionale della Lega Nord di Salvini e ha invece dovuto prendere atto che non c’è miglior collante della prospettiva di una vittoria.
Quella di chi ha sopravvalutato l’incomunicabilità tra gli elettorati dei due partner di governo, dimenticando che, se è vero che il nemico del mio nemico è mio amico, la prossimità tra i due elettorati e quindi la propensione all’interscambio di voti era destinata a crescere assieme alla consapevolezza dell’eguale distanza dai partiti che per eccellenza stavano in campo in nome di un passato diverso e di ragioni opposte».
Il voto come laboratorio sociale
– È dentro a questo nuovo contesto sociale che sono cresciute le condizioni che hanno prodotto quel «passaggio di stato» del quale si parlava prima?
«Esatto: favorito dal variare della temperatura e dalla pressione come la metafora dei “passaggi di stato” suggerisce. In una società nella quale tutti i rapporti stabili stanno dissolvendosi sotto i nostri occhi a una velocità inimmaginabile, dal rapporto di lavoro, alle forme tradizionali della socialità, fino a quella famiglia che un tempo veniva giustamente definita “seminarium rei publicae”, come pretendere che potesse reggere il rapporto partito-elettore e assieme a esso gli orientamenti che lo precedono e i comportamenti che ne conseguono?
È questa l’informazione principale che viene dall’ultimo voto. La conferma che la solitudine dell’elettore è la proiezione nell’arena politica della solitudine della persona. L’indicazione che la tenaglia che ci stringe vede congiuntamente all’opera la ganascia della globalizzazione e quella dell’individualizzazione: per alcuni occasione di liberazione e arricchimento, per altri causa d’ansia e di solitudine.
È dentro questo contesto che dobbiamo riconoscere la cifra re-azionaria del voto. Re-azionaria su entrambi i lati: da una parte su quello di chi re-agisce a un processo che non riesce a dominare, e a una condizione che non ha scelto, e, dall’altra, di chi re-agisce alla re-azione. Due paure che vanno alimentandosi l’un l’altra, fomentate da chi pensa di trarne frutto».
– In questo processo più ampio (di cataclisma e di apocalisse), in questa come in ogni elezione c’è un vincente che annuncia comunque un futuro imminente.
«Dentro questo passaggio di fase, posso solo dire che l’indiscutibile vincitore di turno, che si chiama Salvini, non ha vinto per sempre. Se il successo della maggioranza contro le opposizioni è di tutto il governo bicipite, che è perciò chiamato a rimanere saldo, il fattore differenziale all’origine della vittoria della Lega sul M5S ha un nome preciso: leadership.
Se i 5 Stelle, a causa del loro permanente profilo “settario” che vuole “i salvati” prigionieri della loro alterità e, in assenza di un capo, perciò costretti a muoversi in modalità “pilota automatico”, Salvini offre invece alla Lega, da sempre inclusiva e radicata sul territorio, un vantaggio aggiuntivo: la spregiudicatezza nei riferimenti e la libertà nell’azione. Quel potere, cioè, che solo al leader è riconosciuto finché è assistito dall’aura della vittoria: quello di correggersi e talvolta di contraddirsi. Vedremo nel prosieguo del tempo come lo userà. Di certo dovrà fare i conti con un contesto, sia esso liquido o aeriforme, comunque non solido».
a cura di
Gianfranco Brunelli