Francesco - Benedetto: il papa ex
Oltre a interrogarsi sul perché, oggi è urgente definire il come
La decisione annunciata da Benedetto XVI l’11 febbraio 2013 di rinunciare al ministero petrino non ha solo determinato la convocazione di un conclave senza che il pontefice eletto in quello precedente fosse defunto, ma ha anche posto immediatamente la questione della definizione di uno statuto per il rinunciante.
La decisione annunciata da Benedetto XVI l’11 febbraio 2013 di rinunciare al ministero petrino non ha solo determinato la convocazione di un conclave senza che il pontefice eletto in quello precedente fosse defunto, ma ha anche posto immediatamente la questione della definizione di uno statuto per il rinunciante.
Effettivamente il Codice di diritto canonico del 1983, che pure aveva previsto la possibilità della rinuncia del papa (can. 332, § 2), non ha inteso disciplinare in alcun modo lo statuto di un ex-papa. La circostanza è curiosa e lo è anzitutto perché il Codice è stato presentato ripetutamente come un frutto del Vaticano II: dunque di un concilio che, deliberando a favore della temporaneità della carica episcopale, si era anche posto la questione della condizione del vescovo emerito.
Ma il silenzio del Codice è ancora più curioso alla luce del fatto che la questione delle dimissioni del papa era emersa più volte nei decenni precedenti alla sua promulgazione. È noto come la storia del papato sia costellata di casi di vescovi di Roma costretti alle dimissioni;1 e anche il più celebre caso di dimissioni spontanee di un papa, quello di Celestino V del 1294 – il più frequentemente richiamato all’indomani della rinuncia di Ratzinger –, andrebbe tuttavia ricompreso alla luce dei pesantissimi condizionamenti che Carlo II d’Angiò da un lato e alcune figure del sacro collegio dall’altro, esercitarono su Pietro da Morrone.2
Nei decenni più prossimi a noi, svariati pontefici avevano quindi considerato l’ipotesi delle dimissioni, ancorché la loro riflessione, con limitatissime eccezioni, si fosse sempre arrestata al momento dell’atto della rinuncia. Questa possibilità, prima di Benedetto XVI, era stata certamente considerata da Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II: ma la conclusione naturale dei rispettivi pontificati aveva fatto soprassedere rispetto a una pianificazione giuridica del problema.
Il più diretto – per quel che ancora sappiamo – nel formulare una soluzione rispetto allo status di un ex-papa era stato Pio XII, che negli anni di guerra, sotto la minaccia di una deportazione del papa (la seconda, dopo quella effettivamente attuata da Napoleone nei confronti di Pio VII tra il 1809 e il 1814), aveva lasciato intendere ad alcuni confidenti che i nazisti, nella peggiore delle ipotesi, avrebbero potuto fare prigioniero solo il «cardinale» Pacelli.
Paolo VI, e in tempi piuttosto celeri, aveva lasciato disposizioni affinché lo si considerasse dimissionario nell’eventualità di un’«infermità» o di un «altro grave e prolungato impedimento»:3 ma anche lui non aveva lasciato indicazioni rispetto alla propria condizione una volta dimesso dall’ufficio petrino.
Anche Giovanni Paolo II era stato posto di fronte alla questione delle proprie dimissioni a causa delle sue sempre più precarie condizioni di salute, ma aveva infine declinato l’ipotesi, intravedendo da un lato le complicazioni di una coabitazione tra un papa e il suo predecessore non defunto e, dall’altro, attestandosi sulla linea della irrinunciabilità dell’ufficio papale.4
Di differente avviso si era invece mostrato, ancor prima dell’annuncio del 2013, Benedetto XVI, giunto ad affermare che il papa non aveva solo il diritto ma «in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi». Benedetto XVI aveva anzi allargato lo spettro delle circostanze che potevano/dovevano indurre un pontefice alla rinuncia, aggiungendo alle ragioni d’ordine fisico, già ampiamente considerate dai suoi predecessori, quelle di origine mentale e spirituale.5
La cesura di Benedetto
Ratzinger, insomma, pur facendo salva la premura di mostrarsi come il più fedele successore di Karol Wojtyla, aveva posto le basi teoriche per un atto che costituiva forse una delle contraddizioni più marcanti rispetto alla concezione del pontificato sviluppata da Giovanni Paolo II. Ma era precisamente la grande prossimità di Ratzinger a Wojtyła che aveva reso consapevole il futuro Benedetto XVI che esisteva, per ogni pontificato, un confine varcato il quale la possibilità delle dimissioni diventava impraticabile, perché la malattia e la fragilità indotte dalla vecchiaia rendevano i concetti di sovranità e libertà di decisione del pontefice – quelli essenziali a rendere valido l’atto della rinuncia – pure ipotesi: la loro gestione reale finiva infatti per essere fatalmente concentrata nelle mani dei più stretti collaboratori, che mai avrebbero consentito questo passo. E infatti le più vivaci reazioni alla rinuncia di Benedetto XVI si sono avute proprio tra coloro che – a partire dal card. Dziwisz – erano stati più vicini a Wojtyła.
La scelta di Benedetto XVI è intervenuta dunque prima che egli stesso attraversasse il confine dell’impossibilità delle dimissioni e, una volta comunicata, ha implicato la definizione di un nuovo ruolo per il papa eletto nel 2005. Sappiamo che Ratzinger ha informato anzitempo alcuni collaboratori della sua decisione, ma, per quel che ancora ci è dato di sapere, ha effettivamente sciolto in piena solitudine la questione del dopo-rinuncia.
Qui s’individua una fondamentale differenza con il caso di Celestino V, più volte invocato come un precedente: perché la rinuncia di Pietro da Morrone fu oggetto di un vero e proprio negoziato tra il papa e i cardinali, che diedero direttive fondamentali d’ordine canonistico sulla legittimità o meno dell’atto di rinuncia e sulla forma con cui manifestarlo.
Papa Celestino si conformò pedissequamente alle indicazioni ricevute, che avevano stabilito tra l’altro che la decisione del papa fosse formalizzata – com’è avvenuto anche nel caso di Benedetto XVI – di fronte al concistoro dei cardinali; ma Celestino V dovette anche adeguarsi a un rifiuto importante opposto dal sacro collegio: avendo chiesto infatti di poter continuare, anche dopo l’abdicazione, a indossare le insegne pontificali, il cardinale Matteo Rosso Orsini, estensore materiale della costituzione che sanciva l’atto della rinuncia, negò recisamente questa possibilità.6
Benedetto XVI ha scelto altrimenti: non si è consultato preventivamente con il collegio cardinalizio – o con una parte di esso – per sondarne il parere e ha redatto da solo, in latino, il testo della rinuncia; ha stabilito un periodo di pre-vacanza della sede; ha scelto di non lasciare Roma; di conservare il proprio nome pontificale e, con limitati e pressoché invisibili ritocchi, di mantenere inalterato il proprio abbigliamento.
La definizione del titolo esatto con cui rivolgersi a Benedetto XVI è stata inizialmente causa di incertezze. Affacciandosi alla loggia centrale della Basilica vaticana il 13 marzo 2013, Francesco, che non aveva mai impiegato la parola «papa», si era presentato come il vescovo di Roma e si era riferito a Benedetto XVI come al «vescovo emerito» di Roma: una circostanza che ha dato immediatamente spazio a speculazioni sul fatto che il pontefice argentino avesse inteso chiarire seduta stante in che modo ci si dovesse rivolgere all’ex papa Ratzinger.
Nel volgere di poche settimane si è tuttavia affermato, anche da parte di Bergoglio, l’uso di ricorrere al titolo di «papa emerito»: si trattava solo dell’estremo segnale di come la rinuncia operata da Benedetto XVI, che pure non era un caso isolato nella storia dell’istituzione papale, avesse invece costituito un’importante novità per i suoi effetti, contribuendo appunto a definire un nuovo istituto nella Chiesa.
Ossigeno per gli anti-Bergoglio
Gli aspetti formali determinati dalla rinuncia di Benedetto XVI – lo si è compreso sempre più nel corso del tempo – erano di fatto quelli meno complicati da risolvere, ancorché la gran parte dei mezzi d’informazione insistesse in modo ossessivo sulla suggestione di vedere contemporaneamente sullo schermo due vescovi in talare bianca che pregavano assieme o parlavano amichevolmente. Permaneva piuttosto il problema, di fronte al silenzio del diritto e all’inesistenza di una prassi consolidata, di definire esattamente il perimetro d’azione del papa emerito. Ratzinger ha infatti manifestato da subito l’intenzione di ritirarsi in un silenzio orante, da cui è però uscito in diverse occasioni, anche dietro sollecitazione di papa Francesco.
Bergoglio, che si è trovato a gestire una situazione che non ha precedenti nella storia del cattolicesimo, ha agito anzitutto per non aggravare lo choc delle dimissioni, chiarendo che non era sua intenzione rinchiudere Benedetto XVI in un nuovo Castel Fumone, com’era accaduto anzitempo allo sventurato Pietro da Morrone. La scelta di condurre in porto la pubblicazione dell’enciclica Lumen fidei, messa in cantiere e quasi ultimata da papa Benedetto, la frequente sottoposizione di testi al papa emerito per ottenerne un parere e gli stessi incontri tra i due sono gli indici di questo sforzo sdrammatizzante. Una volta presa confidenza con questa nuova condizione esistenziale, Ratzinger è uscito dal suo ritiro con un nuovo libro-intervista e altri interventi occasionali.
In pubblico Bergoglio ha inteso leggere in positivo quanto accaduto nel 2013, ribadendo in varie occasioni come Benedetto XVI abbia creato un precedente che potrà eventualmente essere seguito anche da altri papi in futuro. Ma, al di là di queste attestazioni simpatetiche, è evidente come l’esperienza degli ultimi anni abbia lasciato emergere anche problemi, che andranno comunque pazientemente censiti e sviscerati in vista di una più complessiva ridefinizione dell’istituto dell’emeritato papale.
Da un lato si è osservato un persistente rifiuto dell’atto compiuto da Ratzinger nel 2013, che ha condotto – talora in forme più grevi, talaltra più raffinate – a contestare la legittimità canonica dell’elezione di Bergoglio o comunque la pienezza del suo ufficio. Sono atteggiamenti che rimontano inconsciamente alla più classica idea di un papato che non può che essere a vita e che individua nel vescovo di Roma un’eccezionalità di funzioni che lo sottrae al regime ordinario della condizione episcopale.
È esattamente l’assenza di norme precise sull’emeritato papale che ha dato ossigeno a queste posizioni, così come ha dato spazio alla singolare formulazione – da parte del segretario particolare di Benedetto XVI – della tesi di un ministero petrino «allargato», che ora contemplerebbe «un membro attivo e un membro contemplativo».7
Ma è pur vero che parte di queste posizioni, contestazioni o speculazioni hanno poco a che fare con preoccupazioni d’ordine canonistico e sono emerse principalmente in quei settori del laicato e della gerarchia cattolica che, in ultima analisi, non hanno accettato il sensibile mutamento di paradigma operato da papa Bergoglio rispetto ai pontificati precedenti su differenti piani (dalle tematiche valoriali all’implementazione della sinodalità, dal processo di de-occidentalizzazione del cattolicesimo alla contestazione del clericalismo come malattia che sclerotizza il dinamismo evangelico).
L’abito e il monaco
E non c’è fondamentalmente grande differenza – ancorché il secondo caso sia decisamente più grave del primo – tra la scelta dell’attuale ministro dell’Interno della Repubblica italiana (che ha stipulato un concordato con la Santa Sede…) che si fa fotografare con una t-shirt con la scritta «Il mio papa è Benedetto» e il vescovo di Carpi che ancora a sette anni dal suo ingresso in diocesi ha scelto di mantenere sul portone d’ingresso del suo episcopio lo stemma di Benedetto XVI.
«Nessuno è più morto di un papa morto»,8 scriveva Ratzinger nel 1964, chiarendo con brutale efficacia come la fine di un pontificato implicasse sempre una drastica cesura nella vicenda ecclesiale e come l’avvicendamento dei papi e delle rispettive scelte di governo si dovesse comunque accettare come quello delle stagioni. Non c’è dubbio che la decisione di Benedetto XVI sia maturata in un contesto segnato dall’eredità conciliare:9 nel senso che a partire dal Vaticano II i vescovi di Roma hanno demolito l’immagine del papa quale «bassorilievo assiro»10 e lo hanno sempre più rivelato come un uomo di carne, sottomesso alle fragilità, alle ferite e ai condizionamenti che coinvolgono tutti gli uomini.
Ma anche al di là di questa importante evoluzione concettuale, utile a comprendere il perché di ciò che è accaduto nel 2013, resta urgente definire, per il futuro, il come.
Le tensioni del recente passato – da quelle che hanno accompagnato il Sinodo sulla famiglia alla crisi delle violenze sessuali – in cui s’è assistito a un utilizzo strumentale e spregiudicato della figura di Benedetto XVI contro quella di Francesco hanno spinto i più solerti estimatori del papa argentino a proporre soluzioni draconiane: dall’abolizione della prefettura pontificia alla sottomissione del papa emerito alle regole previste per i vescovi diocesani emeriti.
Ma si sarebbe trattato di misure ad personam, utili solo a esacerbare ulteriormente un clima già eccessivamente teso (e non c’è dubbio, tra l’altro, che gli stessi soggetti che hanno avanzato queste proposte non avrebbero avuto nulla da eccepire se gli interventi di Ratzinger fossero stati del tutto consonanti alle linee magisteriali espresse da papa Francesco). Per ragioni evidenti a tutti non potrà essere certamente Bergoglio a produrre una soluzione alla questione, che andrà nondimeno regolata con norme capaci di chiarire da un lato l’esclusività del munus petrino e dall’altro la decadenza del rinunciante da ogni elemento, esteriore come intrinseco, che rinvia all’ufficio papale.
In questo senso la notoria ritrosia di Bergoglio di fronte agli aspetti per così dire più coreografici che hanno caratterizzato tradizionalmente la figura del papa – dall’abbigliamento all’appartamento pontificio – non dovrebbe far scuola: proprio perché c’è tutta una dimensione di devozione popolare verso la figura del papa che li ritiene connotanti, anche senza scadere nella confusione tra l’abito e il monaco. Se poi le future misure fossero, dopo l’intervento dei canonisti, discusse e finalmente approvate in concistoro si riuscirebbe a dar loro una forza e legittimità maggiore di quella che avrebbero se prodotte in totale solitudine dal pontefice.
Ma prima ancora che intervengano nuove norme sul dopo-rinuncia, occorrerebbe che il pontefice che nei prossimi decenni avesse in animo di compiere un simile passo, evitasse di compiere atti di valore consapevolmente condizionante per il successore, com’è stata, ad esempio, la nomina (2.7.2012) dell’allora mons. Gerhard Ludwig Müller alla testa della Congregazione per la dottrina della fede, decisa da Benedetto XVI quando aveva già programmato le proprie dimissioni: è già sufficientemente complicato raccogliere l’eredità di un papa defunto senza che ci si debba pure preoccupare di urtare la suscettibilità di un papa emerito.
Enrico Galavotti
1 Una rapida rassegna è stata offerta da R. Rusconi, Il gran rifiuto. Perché un papa si dimette, Morcelliana, Brescia 2013.
2 Cf. A. Marini, A. Bartolomei (a cura di), Il processo di canonizzazione di Celestino V, 2 voll., Romagnoli, Firenze 2015-2016.
3 L. Sapienza, La barca di Paolo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2018, 185-198.
4 Questo non aveva impedito peraltro che ci si ponesse il problema di come procedere nel caso di un papa ormai incapace d’assolvere al suo ministero ma indisponibile alla rinuncia: J.H. Provost, «“De sede apostolica impedita” due to incapacity», in A. Melloni, D. Menozzi, G. Ruggieri et al. (a cura di), Cristianesimo nella storia. Saggi in onore di Giuseppe Alberigo, Il Mulino, Bologna 1996, 101-130.
5 Cf. Benedetto XVI, Luce del mondo. Il papa, la Chiesa, i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald, LEV – Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2010, 53.
6 Cf. P. Herde, «Celestino V, papa», in Dizionario biografico degli italiani, volume 23 (1979), in www.treccani.it.
7 G. Gänswein, Benedetto XVI, la fine del vecchio, l’inizio del nuovo, in www.acistampa.com (21.5.2016).
8 J. Ratzinger, Concilio in cammino. Sguardo retrospettivo sulla seconda sessione, Paoline, Roma 1965, 22.
9 Lo ha argomentato con rara efficacia G. Marengo, Benedetto XVI, il Vaticano II e la rinuncia al pontificato, Cittadella, Assisi 2013, 91-97.
10 Cf. G. De Luca, «Premessa», in A. Roncalli, Il cardinale Cesare Baronio, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1961, 7.