Essere pasta nuova
Azzimi ed eucaristia
Nell’ambito dell’incontro tra le Chiese cristiane vi è una dimensione denominata «ecumenismo spirituale». La prima accezione del termine riguarda la preghiera: anche se si è lontani nello spazio è possibile essere prossimi nello spirito. La scelta di elevare le preghiere in tempi comuni è solo la modalità più riconoscibile di una forma di unione profonda radicata in Dio.
Nell’ambito dell’incontro tra le Chiese cristiane vi è una dimensione denominata «ecumenismo spirituale». La prima accezione del termine riguarda la preghiera: anche se si è lontani nello spazio è possibile essere prossimi nello spirito. La scelta di elevare le preghiere in tempi comuni è solo la modalità più riconoscibile di una forma di unione profonda radicata in Dio.
Tuttavia, l’espressione «ecumenismo spirituale» è dotata anche di altri significati: con essa s’intende pure la scelta in base alla quale ci si rapporta con l’altro credente in Gesù Cristo in un atteggiamento di reciproco accoglimento. Lo si fa con una modalità grazie alla quale ci giungono doni, tipici della tradizione altrui, che ci consentono di vivere più fedelmente quella a cui apparteniamo.
L’atto d’imparare dall’«altro» per conoscere meglio se stessi non comporta affatto la via dell’imitazione; anzi, è vero il contrario, nessuna diversità viene annacquata. Non sempre è così; attualmente, per esempio, nel confronto con la tradizione ortodossa il caso più frequente di via imitativa è, con ogni probabilità, costituito in ambito cattolico dall’uso spurio di icone più o meno plagiate e certamente collocate fuori dal loro autentico contesto.
In questo senso, le diversità devono essere mantenute e non superficialmente riconciliate. Si apre allora uno spazio per un «et et» che va al di là di un riconoscimento del pluralismo visto in chiave di pura tolleranza reciproca. In tal caso, in luogo di parallelismo, occorre parlare di debito reciproco.
C’è lievito e lievito
L’«et et» (vale a dire l’esistenza di una pluralità limitata e quindi reciprocamente confrontabile) è presente già nel canone biblico sia dell’uno sia dell’altro Testamento. Gli esempi sono numerosi e di grande portata, scegliamo di seguirne uno solo.
Matteo ci propone una breve, nota parabola che esalta la forza della lievitazione: «Il Regno dei cieli è simile al lievito che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata» (13,33).
Matteo conosce anche un uso negativo dell’immagine del lievito; in un altro punto del suo Vangelo, infatti, Gesù ammonisce i propri discepoli dal guardarsi dal lievito di farisei e sadducei (cf. Mt 16,6). L’allusione diventa ora quella al fermento che corrompe la realtà con cui viene a contatto.
Il ruolo più significativo dell’immagine della corruzione è però collegato alla dimensione degli azzimi pasquali. Il sottofondo agricolo della festa degli azzimi (cf. Es 12,15-20) era legato all’idea di cibarsi del prodotto del nuovo raccolto; di contro, il lievito è sempre espressione di una realtà vecchia derivata da un impasto precedente.
Il riferimento agli azzimi è quindi predisposto a indicare una novità di vita. Proprio in questo senso lo usa Paolo in un brano (non a caso letto nel corso della veglia pasquale): «Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova perché siete azzimi. E infatti Cristo nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con il lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità» (1Cor 5,6-8). Pasqua (termine in questo caso inteso come equivalente dell’Agnello pasquale) e azzimi sono chiamati in causa per indicare la nuova condizione di vita del credente. L’immolazione dell’Agnello consente di diventare azzimi, vale a dire di diventare nuove creature (cf. 2Cor 5,17).
Il passo della Prima lettera ai Corinzi è privo in se stesso di riferimenti eucaristici. In esso non vi è alcuna allusione alla materia della consacrazione. Tuttavia in Occidente il clima pasquale collegato all’istituzione dell’eucaristia (cf. 1Cor 11,23-26; Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,14-20) ha sicuramente favorito la progressiva individuazione del pane azzimo come l’alimento più consono alla consacrazione. Questa scelta divide nettamente la Chiesa latina da quella orientale.
Il simbolo del pane eucaristico
Nel 1054, la data più simbolica che reale della divisione tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, uno dei motivi di contrasto fu la questione se il pane eucaristico dovesse essere obbligatoriamente azzimo (impastato cioè con acqua e farina) o lievitato. La controversia degli azzimi rappresentò un fenomeno esemplare. Si trattò di uno scontro tra due contrapposti codici di lettura simbolica della medesima realtà sacramentale, radicati nelle rispettive tradizioni ma privi di significative differenze dogmatiche.
L’assenza di lievito nel pane eucaristico, in continuità con le prescrizioni pasquali veterotestamentarie, esprimeva per l’Occidente latino l’assenza di qualsiasi fermento di male nella materia sacrificale, la sua purezza sincera e veritiera. Per l’Oriente greco il lievito – parte integrante assieme al sale dell’offerta sacrificale – indicava la presenza in Gesù Cristo di un’anima umana creata e, con il far fermentare la pasta, simboleggiava sia la presenza di un principio di vita all’interno di una materia inerte sia il discrimine tra i molteplici e imperfetti sacrifici antichi e il sacrificio nuovo e irripetibile vivificato dallo Spirito.1
I sacrifici dell’economia antica erano obbligatoriamente salati (cf. Lv 2,13); in un certo senso, si potrebbe quindi sostenere che il sale rimanda alla figura mentre il lievito indica la realizzazione.
Dopo l’XI secolo molto è avvenuto. Con il concilio di Trento la visione dogmatica della transustanziazione è stata chiamata in causa per sostenere la presenza di culti eucaristici ignoti all’Oriente celebrabili anche al di fuori della santa messa: «La Chiesa cattolica professa questo culto latreutico al sacramento eucaristico non solo durante la messa, ma anche fuori della sua celebrazione, conservando con la massima diligenza le ostie consacrate, presentandole alla solenne venerazione dei fedeli cristiani, portandole in processione con gaudio della folla cristiana».2
Ora la questione connessa al confronto con l’ortodossia non è quella di rimettere in discussione forme di culto divenute espressione profonda della Chiesa latina, si tratta invece di mantenere alto il discorso sul piano simbolico.
Se si ribadisce la scelta per gli azzimi, che trova un suo riscontro preciso anche nell’ostensorio, occorrerebbe farlo presentando ai credenti il fine a cui mira una simile scelta. La meta sta nel diventare a propria volta azzimi sinceri e veritieri. L’ecumenismo subentrato alle reciproche scomuniche, quando è recepito in senso pieno, costituisce un apporto fondamentale per collocare il discorso sul piano elevato che gli compete.
A quanto ci è dato di vedere, nell’attuale Chiesa cattolica romana l’andamento è purtroppo di tutt’altro tipo; in luogo di elevare il discorso lo si abbassa o in una casuistica immemore dell’ambito simbolico o in una ritualità angusta. «“Il pane utilizzato nella celebrazione del sacrificio eucaristico deve essere azzimo, esclusivamente di frumento e preparato di recente, in modo che non ci sia alcun rischio di decomposizione” (...) “Le ostie completamente prive di glutine sono materia invalida per l’eucaristia. Sono materia valida le ostie parzialmente prive di glutine e tali che sia in esse presente una quantità di glutine sufficiente per ottenere la panificazione senza aggiunta di sostanze estranee e senza ricorrere a procedimenti tali da snaturare il pane”».3
In passaggi come questi la perdita della dimensione simbolica è palese; nessuno leggendoli pensa di essere chiamato in proprio a diventare azzimo sincero e veritiero.
Ancor più di recente il card. Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti,4 oltre a indicare la netta preferenza (o addirittura quasi l’obbligatorietà) per i fedeli di ricevere la comunione in bocca e in ginocchio, evidenzia i pericoli legati al ricevere l’ostia sulle mani in modo puramente sostanzialistico, dichiarando che questo modo di comunicarsi accresce di molto il pericolo che qualche minimo frammento di pane consacrato vada disperso.
La consacrazione rende reale la presenza di Gesù Cristo nel pane (e nel vino), il comunicarsi con l’ostia consacrata ha come fine quello di renderci capaci della novità di vita simboleggiato dal pane azzimo. Senza negare il dogma, la prova della presenza reale, assai più che nelle modalità rituali, la si trova nella vita.
1 Cf. E. Morini, Gli ortodossi, Il Mulino, Bologna 2002, 30-31.
2 Paolo VI, lett. enc. Mysterum fidei sulla dottrina e il culto dell’eucaristia, 3.9.1965, cit. in CCC 1378.
3 Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, Lettera circolare ai vescovi sul pane e il vino dell’eucaristia, 8 luglio 2017; Regno-doc. 19,2017,602. La frase interna virgolettata è una citazione tratta da Congregazione per la dottrina della fede, Lettera circolare ai presidenti delle conferenze episcopali circa l’uso del pane con poca quantità di glutine e del mosto come materia eucaristica (24.7.2003, prot. n. 89/78 – 17498).
4 R. Sarah, «Prefazione», in F. Bortoli, La distribuzione della comunione sulla mano. Profili storici, giuridici e pastorali, Cantagalli, Siena 2018.