Disarmati
Dal Mar Rosso a Lampedusa
«JHWH è un uomo di guerra, JHWH è il suo nome» (Es 15,3). Che Dio fosse presentato come un guerriero era comune in un’epoca in cui tutti impugnavano le armi in nome del loro Dio. La guerra a quel tempo era sempre un evento sacro. A lungo gli eserciti hanno creduto che Dio fosse dalla loro parte perché anch’egli schierato contro i loro nemici. Oggi invece solo una minoranza combatte in nome di Dio.
All’interno del composito 13o capitolo del libro dell’Esodo compare un’annotazione isolata: «I figli d’Israele, armati (hamusim), uscirono dalla terra d’Egitto» (Es 13,18). Si tratta di una qualifica rara: in tutta la Bibbia ebraica essa torna infatti solo altre tre volte (cf. Gs 1,14; 4,12; Gdc 7,11). I vecchi vocabolari che traducevano dall’ebraico al latino la rendono con questa perifrasi: «Ad pugnam parati».*
Quella di uscire con le armi in pugno è notazione sicuramente minore ma non senza significato, proprio a motivo del suo essere priva di riprese. Gli ebrei hanno le armi ma non le usano. Non si parla più di spade. Lette sotto questa angolatura, le violente immagini mitiche del Dio guerriero che al Mar Rosso annienta l’esercito egizio sembrano voler evidenziare il fatto che il Signore combatte a favore di chi ha con sé le armi ma non le impiega. Gli ebrei sono attrezzati alla battaglia eppure non scendono in campo.
Sul piano fattuale il mondo di ieri e di oggi è largamente dominato da chi usa le armi. I carri e i cavalli – gli strumenti bellici per eccellenza di quell’epoca – simboleggiano il dominio di chi ha dalla sua gli arsenali bellici più potenti. L’Esodo si propone di narrare un’altra storia. La liberazione del popolo dall’Egitto avrebbe dovuto comportare la decisione definitiva di non tornare indietro ai carri e ai cavalli (cf. Dt 17,16). In questo caso, come in molti altri, lo iato posto tra dover essere ed essere assume le dimensioni del baratro. Finora la storia umana nel suo complesso ha comportato un costante ritorno alla terra dei faraoni. Non ci è dato fingere che non sia così.
«JHWH è un uomo di guerra, JHWH è il suo nome» (Es 15,3). Che Dio fosse presentato come un guerriero era comune in un’epoca in cui tutti impugnavano le armi in nome del loro Dio. La guerra a quel tempo era sempre un evento sacro. A lungo gli eserciti hanno creduto che Dio fosse dalla loro parte perché anch’egli schierato contro i loro nemici. Oggi invece solo una minoranza combatte in nome di Dio. Si guerreggia ovunque, ma per la maggior parte dei casi per uccidere non si fa più appello alla divinità. Quanto un tempo era normale ora è diventato anomalo.
L’ombra nella salvezza
Chi non combatte o chi fa guerra senza evocare il nome di Dio ha molte difficoltà a considerare il Signore come un guerriero. Avvenne così già nell’epoca dei rabbi, allorché, conclusasi la seconda guerra giudaica (135 d.C.), gli ebrei per secoli non furono più «ad pugnam parati».
L’espressione che presentava il Signore come un uomo di guerra contenuta nel grande inno di lode pronunciato da Mosè e dai figli d’Israele dopo il passaggio del Mar Rosso (Es 15, 1-21) si trasformò in fonte di imbarazzo: «Il santo, benedetto egli sia, gioisce per la caduta dei malvagi? Non è forse scritto: “Rendete grazia al Signore perché la sua misericordia dura per sempre” (2Cr 20,21)? Rabbi Yohanan disse: “Per quale ragione le parole: ‘Perché egli è buono’ (Sal 136,1) sono omesse da questo ringraziamento? Forse perché il santo non si rallegra della caduta dei malvagi?” (...) Gli angeli ministranti volevano cantare i loro inni, ma il santo, benedetto egli sia, disse: “L’opera delle mie mani sta per essere travolta nel mare e voi cantate inni?”. Rabbi Eleazar replicò: “Egli non gioisce, ma fa sì che altri gioiscano”».1
In quest’ultima spiegazione è forse contenuta la ragione per la quale in terra si continua a recitare il «Canto del mare» vietato in cielo? Al pari della nube dell’Esodo, la salvezza ha un lato luminoso e uno scuro (cf. Es 14,20), i salvati scorgono la luce, mentre il Signore vede anche l’ombra.
Il pensatore ebreo contemporaneo Emil F. Fackenheim sostiene, in un suo libro, che questo passo talmudico è molto citato in quanto incoraggia sermoni moralistici incentrati su un Dio di universale benevolenza, tuttavia il suo contenuto reale è diverso: «Anche nel momento supremo ma pre-messianico della sua presenza salvifica Dio non può salvare gli israeliti senza uccidere gli egiziani. Così la gioia infinita del momento (...) si confonde con il dolore, e è il dolore infinito perché la gioia è infinita (...) Così Dio e l’uomo nell’ebraismo pagano ciascuno il loro prezzo per l’ostinazione con cui si tengono attaccati alla storia reale, non “spirituale”».2
Invero i passi dei capitoli 14 e 15 del libro dell’Esodo non hanno in loro stessi alcunché di storico. L’evidente richiamo al linguaggio mitico delle origini presente nelle acque divise e nella comparsa dell’asciutto (cf. Gen 1,9-10) ha ben poco da spartire con i modi in cui il Signore d’Israele si fa presente nella storia.
Quando si passa in quest’ultimo ambito i protagonisti diventano altri. I deportati giudei in Babilonia furono liberati dal giogo neobabilonese a opera del re persiano Ciro. Il libro di Isaia lo definisce unto (masiah) del Signore. Dio afferma di averlo chiamato per nome e di avergli dato un titolo per quanto egli non lo conoscesse (Is 45,1-4).
Il Signore agisce, ma sulla scena della storia la sconfitta di Babilonia avvenne a opera delle truppe persiane. Il Signore, presentato come un guerriero, ora diviene un Dio nascosto (cf. Is 45,15), a essere visibile è soltanto l’azione dell’esercito di Ciro. A questo riguardo si è nelle condizioni di parlare di un orizzonte effettivamente storico (e ciò resterebbe vero anche se i fatti fossero avvenuti in modo, almeno in parte, diverso da come li espone la Bibbia).
Al Mar Rosso invece non ebbe luogo alcuno scontro storico tra esercito egizio e fuggiaschi ebrei. In quella circostanza ci è raccontata la liberazione compiuta da un Dio guerriero a favore di un popolo senz’armi. Il linguaggio è mitico anche per il fatto che nella storia umana le cose non vanno in questo modo. Il «Canto del mare» esprime la lode. Esso instilla speranza in chi lo recita proprio a motivo del suo essere irrealistico.
Ciononostante resta da domandarsi se il comando divino rivolto agli angeli di cessare di cantare non apra il problema se ci sia concesso d’innalzare un inno per la nostra liberazione, nel caso in cui essa sia frutto di un’azione violenta. Mettendoci a parte Dei anche il nostro rallegrarsi infatti non può essere pieno. È dubbio che in questo caso ci sia una infinitezza di gioia in grado di correlarsi con un dolore infinito. Forse ci è dato di dischiudere la nostra bocca alla lode solo quando si è consapevoli del mutismo che regna nei cieli.
Il silenzio del cielo e del mare
Nel 1992 si tenne a Milano la VI edizione della «Cattedra dei non credenti» intitolata Chi è come fra i muti. Il cardinal Martini ne spiegò il titolo con queste parole: «Come testo di riferimento abbiamo preso il midrash al Cantico di Mosè (cf. Es 15,11) dove nell’originale ebraico si legge: “Mi kamokha ba-elim?” Chi è come te fra gli dei? Questo versetto (...) può essere chiamato il versetto biblico della presenza, ma nell’interpretazione midrashica è completamente capovolto, per diventare il versetto dell’assenza – dalla presenza all’assenza –, il versetto dell’uomo ritto davanti al silenzio opprimente di Dio, al posto di Mi khamokha be-elim? si legge: “Mi khamokha be-illemim?”, Chi è come te fra i muti?».3
Muto in cielo perché lì si coglie il lato oscuro presente nella salvezza conquistata con la violenza, ma forse muto anche per chi vive all’interno della storia reale. In passato, ma anche ai nostri giorni, non ci è concesso sfuggire a questo interrogativo. Per i fuggiaschi le acque ora non si dividono. In mare vediamo travolti non già carri e cavalli (o armi ben più terribili inventate dall’umanità), bensì i poveri e gli sfruttati protagonisti di un esodo non accompagnato da alcuna miracolosa salvezza.
Quando ci sono dei salvati, essi lo sono in virtù di un impegno umano; mentre i sommersi sono tali a causa dello sfruttamento compiuto da uomini nei confronti di altri esseri umani. Ai nostri giorni, ad annegare nel mare sono esseri umani assai più paragonabili agli schiavi ebrei che ai guerrieri egizi.
Chi è come te tra i muti? Arduo recitare a Lampedusa il «Canto del mare» senza pensare a un Dio muto non solo in cielo ma anche sulla terra.
Nella veglia di Pasqua, verranno proclamati il 14o e il 15o capitolo del libro dell’Esodo. Lo saranno proprio perché in quella notte non si manifesterà alcuna «ostinazione» volta a rimaner legati alla storia reale. Nel corso della veglia si coltiverà la speranza che la storia «spirituale» sia più reale di quella reale. Nella veglia pasquale, lo sguardo sarà rivolto a una dimensione diversa da quella contraddistinta da un mare che non si divide più di fronte a disarmati fuggiaschi.
* Riprendo parte della riflessione proposta il 24 gennaio scorso a Modena, nella chiesa di San Benedetto Abate, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
1 Talmud babilonese, Meghillah 10b.
2 E.F. Fackenheim, La presenza di Dio nella storia, Queriniana, Brescia 1977, 45.
3 Cattedra dei non credenti, Chi è come te fra i muti? L’uomo di fronte al silenzio di Dio, Lezioni promosse e coordinate da Carlo Maria Martini, Garzanti 1993, 15-16.