Il ruolo del «terzo»
Le vie della riconciliazione
Al pari del perdono, del pentimento e della consolazione, la riconciliazione è una realtà che si colloca nell’ambito del «dopo». È così perché in tutti questi casi si tenta di rispondere a quanto c’è stato ma non avrebbe dovuto esserci: lo scontro, la divisione, il contrasto, la lite, la colpa, l’offesa, la perdita, il dolore lancinante.
Si tratta di un «dopo» che non annulla quanto è stato. Non è un colpo di spugna, non sono né dimenticanza, né oblio. Per queste vie ci si misura a viso aperto con il passato per non restarne prigionieri. Ci si colloca quindi agli antipodi non solo dell’oblio, ma anche della rimozione.
Tra i termini prima enunciati sussistono rilevanti differenze. La riconciliazione comporta una bilateralità in atto, il pentimento è invece unilaterale, colui che si pente, anche se esprime una richiesta di essere perdonato, non è nelle condizioni d’imporre d’essere esaudito. Lo stesso vale per un perdono concesso prima che nell’animo dell’offensore prenda dimora il pentimento.
Su un altro piano, pure la consolazione è costretta a operare nell’ambito di una bilateralità «sbilanciata»: chi ha patito una perdita è oggetto di premura da parte di chi si trova in un’altra situazione. Dal canto suo la compiuta bilateralità, tipica della riconciliazione, comporta la pari dignità delle due parti. La precedente sperequazione ora viene a cessare. Ciò vale nel caso di relazioni sia interpersonali sia collettive. Sullo sfondo di questi processi si staglia però una possibile ombra, vale a dire il fatto che l’avvenuta riconciliazione a due apra una frattura nei confronti di un terzo.
Osservata in questa luce, la parabola del «padre misericordioso» (Lc 15,11-32) evidenzia due passaggi rilevanti. Il figlio minore, dopo aver dissipato i beni ricevuti, torna verso casa. Lungo il tragitto egli mostra d’ignorare il cuore del proprio genitore, infatti pensa di conquistarlo declassandosi a servo. Tuttavia «quando era ancora lontano» il padre «lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli gettò le braccia al collo e lo baciò» (Lc 15,20).
Per comprendere questa dinamica non è necessario evocare un diuturno scrutamento dell’orizzonte. La situazione è infatti paragonabile a quella del samaritano che scorge il ferito sul bordo della via. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a una stessa successione di verbi: dapprima si vede e immediatamente dopo si prova compassione (verbo splagchnizomai; cf. Lc 10,33). L’atto di misericordia che ci conduce verso l’«altro» non è bilaterale; il padre e il figlio, il soccorritore e il malcapitato non si trovano sullo stesso piano. Nel caso dei fratelli, il discorso può invece diventare più bilaterale.
Esaù e Giacobbe
Giacobbe, dopo tanti anni trascorsi presso suo suocero Làbano, si mette in marcia per ritornare, ricco di prole e di beni, alla terra d’origine. Lungo la via il patriarca apprende che il fratello Esaù, a cui aveva sottratto la primogenitura, viene verso di lui accompagnato da quattrocento uomini. Allora «Giacobbe ebbe paura e fu angosciato» (Gen 32,8). Il tradizionale commento ebraico propone questa spiegazione: Giacobbe ebbe paura di essere ucciso e fu angosciato dall’idea che forse sarebbe toccato a lui uccidere.1 Non tutte le paure sono però uguali, alcune sono paralizzanti, altre sollecitano l’azione.
Nel caso del patriarca essa è del secondo tipo; egli infatti reagisce ed elabora piani difensivi: divide gli accampamenti per far sì che almeno uno dei due si salvi; inoltre invia al fratello copiosi doni, pensando in tal modo di placarlo. Il giorno dopo, quando vide giungere Esaù accompagnato dalla sua numerosa scorta, Giacobbe affidò i propri figli alle loro rispettive madri, si mise in testa al gruppo e, a debita distanza, si prostrò sette volte fino a terra davanti al fratello.
Eppure la primogenitura e la benedizione da lui carpite lo avrebbero dovuto costituire signore. La via verso la riconciliazione è spianata però dallo stesso Esaù. È il fratello maggiore a ricoprire il ruolo più nobile; i vent’anni trascorsi avevano smorzato in lui la sete di vendetta; tuttavia il passare del tempo da solo non basta a spiegare il suo comportamento: troppe volte l’odio ha dimostrato di essere dotato di una memoria più tenace dell’amore. «Ma Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero» (Gen 33,4).
L’atto compiuto dal fratello maggiore in quella circostanza è talmente alto da essere stato assunto come sottotesto del gesto compiuto dal padre nella parabola. Rispetto al Vangelo, tuttavia, nella Genesi c’è un particolare in più: i fratelli piangono assieme. L’atto ora diviene perfettamente bilaterale. Il sigillo della riconciliazione sta nelle lacrime sgorgate dagli occhi di entrambi. È vero che subito dopo questo incontro i due fratelli decisero di separarsi.
Tuttavia Esaù e Giacobbe (nominati proprio in questo ordine allusivo a una specie di primogenitura riconquistata) si sarebbero di nuovo incontrati nell’atto di seppellire il loro padre Isacco (cf. Gen 35,29). La Bibbia presenta quest’ultimo avvenimento in una riga come puro dato di cronaca, ma dietro a quella spoglia annotazione ogni lettore scorge il valore e lo spessore del non detto.
Il ruolo del «terzo»
Nella parabola il padre fa festa per il ritorno del figlio minore. Tra i due è avvenuta una forma di riconciliazione. Tuttavia è proprio quest’ultima a spalancare il problema del terzo, in questo caso rappresentato dalla figura del fratello maggiore. L’avvicinamento degli uni provoca l’allontanamento dell’altro. Si tratta di una dinamica frequente in politica, dove la parola «riconciliazione» è per lo più impropria, ma non assente in altre operazioni riconciliatrici, comprese quelle presenti in campo ecumenico e interreligioso.
La parabola non riporta alcuna conclusiva risposta del fratello maggiore. Luca lascia quindi in sospeso l’esito del tentativo paterno di riconciliarsi anche con il primogenito. Al pari di Andrè Gide,2 ogni lettore è nelle condizioni d’immaginare molteplici «dopo». In questo caso il non detto si apre sull’indefinito. La mancata risposta rende comunque più acuto il problema del «terzo», una questione che, fino a quando resta aperta, incrina inevitabilmente il processo di riconciliazione.
Il «terzo» come mediatore
Nella tradizione giudaica, Aronne è la figura associata più di ogni altra alla costruzione di una pace intesa come riconciliazione. Il fratello di Mosè, nonostante la sua debolezza e accondiscendenza, o forse proprio grazie a esse, viene presentato come il prototipo di chi si sforza senza posa d’instaurare la riconciliazione tra i membri del suo popolo. Su questo punto i commenti narrativi si dilungano ampiamente, prospettando molti episodi leggendari in cui emerge la convinzione che, quando urge la riconciliazione, si è sospinti a compiere molti atti rischiosi e ibridi, ivi compresa la scelta di percorrere, almeno parzialmente, la via della finzione.
Si racconta che, quando due uomini avevano litigato, Aronne si andasse a sedere accanto a uno di loro e gli dicesse: «Figlio mio, bada a quanto sta facendo tuo fratello! Egli si batte il petto e bagna i suoi abiti di lacrime dicendo: “Me sventurato! Come potrò alzare gli occhi e guardare il mio compagno? Sono stato io a trattarlo stoltamente”».
Dopo aver terminato di riferire tali parole, il fratello di Mosè continuava a parlargli fino a quando fosse scomparsa ogni traccia di rancore. Allora Aronne si recava dall’altro contendente e ripeteva lo stesso rito conciliatorio e «quando i due uomini si incontravano s’abbracciavano e baciavano reciprocamente».3
Un altro commento applica l’attività riconciliatrice all’ambito familiare. Allorché un uomo aveva scacciato la moglie, Aronne andava da lui e gli chiedeva come mai avesse litigato con la sua sposa. Se il marito gli rispondeva affermando: «Perché ha agito in modo svergognato nei miei confronti», Aronne replicava che lui stesso si sarebbe reso garante che ciò non si sarebbe più ripetuto. Poi andava dalla moglie e le poneva la stessa domanda e se lei rispondeva che il marito l’aveva picchiata e maledetta, Aronne si rendeva ancora una volta personalmente garante che in seguito ciò non avrebbe più avuto luogo.
Il fratello di Mosè insisteva fino a quando i due non si fossero rappacificati. Come frutto della riconciliazione tra i coniugi la donna avrebbe avuto un figlio a cui sarebbe stato imposto il nome di Aronne. I bambini chiamati in quel modo ammontarono a tremila.4
L’iperbolica cifra sta a significare che in ogni tempo è stata profonda tanto la consapevolezza della precarietà di una convivenza quotidiana insidiata dal logoramento, dalla fatica, dalla stanchezza, quanto la fiducia nelle capacità di ripresa insite nel rapporto coniugale. Tenendo conto di ciò si sarebbe propensi ad affermare che, in un’ottica esistenziale, parlare d’indissolubilità del matrimonio appare formale e astratto, mentre prospettarne la «riannodabilità» è concreto e riconciliatore.
Il ruolo del mediatore rispetto ai processi di riconciliazione è ben più esteso dei casi interpersonali e coniugali ora esemplificati; le dinamiche positive legate alla presenza di un «terzo» illustrate da questi riferimenti giudaici rimangono comunque significative anche quando ci si muove in orizzonti più vasti.
1 Cf. Rashi a Gen 32,8.
2 Cf. il racconto di A. Gide, Il ritorno del figliol prodigo (1907). Per altre esemplificazioni, cf. C. Mazzucco, Il figliol prodigo nella parabola lucana e nelle reinterpretazioni di alcuni autori europei della prima metà del ’900, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2008.
3 ‘Avot de-Rabbi Natan A, 12.
4 ‘Avot de-Rabbi Natan B, 25.