Amore e violenza
La storia di due donne anonime
Nell'episodio evangelico della donna che entrò in casa di Simone il fariseo (cf. Lc 7,36-50), si conosce il nome di colui che offre il pranzo a Gesù, mentre ignoriamo quello della donna che, nel suo comportamento, dimostra una personalità audace e tutt’altro che anonima. Il confronto suscita qualche sconcerto.
Fin dall’epoca dei padri della Chiesa si fece notare il fatto che, nella parabola di colui che un tempo si denominava il «ricco epulone», a essere conosciuto è solo il nome del povero: Lazzaro (l’unico personaggio delle parabole ad avere un nome) e non quello del benestante (cf. Lc 16,19-21). Il particolare da solo basterebbe a indicare chi tra i due protagonisti è più caro agli occhi di Dio. Ora è come se l’antico «ti ho chiamato per nome» rivolto dal Signore al potente Ciro re di Persia (Is 45,4) fosse rivolto a ogni povero che confida nell’«aiuto di Dio» (è l’etimo della parola Lazzaro).
La situazione sembra capovolgersi nel caso dell’episodio (anch’esso presente nel solo Vangelo di Luca) dell’anonima donna che entrò in casa di Simone il fariseo (cf. Lc 7,36-50). In questo caso conosciamo il nome di colui che offre il pranzo a Gesù, mentre ignoriamo quello della donna che, nel suo comportamento, dimostra una personalità audace e tutt’altro che anonima. Il confronto suscita qualche sconcerto.
Non è certo questa la sola ragione, tuttavia non pare fuori luogo supporre che uno dei motivi che, in Occidente, hanno spinto a identificare arbitrariamente la peccatrice con Maria Maddalena sia stata l’istanza di superare l’anonimato a cui è consegnata una figura tanto ricca di individualità.1 Chi ama ha sempre un nome.
L’episodio avvenuto in casa di Simone è sigillato da due frasi di Gesù, la prima relativa alla donna, la seconda diretta a lei: «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato» (Lc 7,47); «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!» (Lc 7,50). Amore e fede/fiducia qui s’incontrano. Per avvicinarsi a quel modo ai piedi di Gesù occorrevano entrambi.
Gesù è l’antitesi del «cliente»
«Ha molto amato». Come? Il paragone proposto dal Vangelo zoppica come non di rado capita per questa forma linguistica. Gesù, rivolgendosi a Simone, gli chiede quale dei due debitori amerà di più il suo creditore: colui a cui sono stati condonati 500 denari o colui al quale è stato annullato un debito di 50?
La giusta risposta di Simone è che ad amare di più sarà il primo. Si ama quindi perché ci è stato rimesso il debito; alla donna avviene però il contrario: le sono perdonati i peccati perché ha molto amato. È l’amore a prendere l’iniziativa. Esso si manifesta nel rapporto avuto dalla donna rispetto al corpo di Gesù che il fariseo giudica sotto l’ottica dell’impurità legata al toccare (cf. Lc 7,39).
All’opposto di ciò, Gesù interpreta il comportamento della donna all’insegna dell’ospitalità. Ella in tutta la scena non pronuncia una parola. Il suo linguaggio è solo gestuale. Il suo amore è tutto racchiuso in atti che assorbono in loro stessi parole e nome. Gesù lo comprende, perciò descrive il suo modo di agire contrapponendolo a quello di Simone (colui che ama poco): «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli (…)» (Lc 7,44-46).
La donna toccando, bagnando con le lacrime, asciugando con i capelli e ungendo i piedi di Gesù diviene la vera ospite. Il suo molto amore s’incarna in gesti che si prendono cura del corpo di lui. La donna non chiede in modo esplicito perdono. Il suo pentimento si manifesta rivolgendosi verso il corpo di colui che non l’ha cercata.
Gesù è l’antitesi del «cliente»: non paga per ricevere prestazioni sessuali legate al corpo della prostituta, è invece lui a essere ricercato dalla donna ed essere occasione non di guadagno bensì di un amoroso sperpero che procura perdono e pace.
Nel linguaggio gestuale la bocca serve a baciare, non a parlare. La donna con le sue labbra, le sue lacrime e i suoi capelli ospita il corpo di Gesù in modo opposto a come aveva fatto con tanti altri corpi maschili nel tempo in cui i gesti dell’amore venivano subordinati al piacere e al guadagno. Il suo «molto amore» si concentra tutto in questo mutamento.
Con le mani sulla soglia
Ci sono un’ospitalità perfetta e una imperfetta,2 ma c’è anche il rifiuto più brutale rivolto all’ospite. Ne troviamo riscontro in una storia atroce contenuta in una delle cosiddette «appendici» del libro dei Giudici (cf. Gdc 19). A differenza della prima e più ampia parte, la sezione conclusiva di questo libro biblico è filomonarchica.
Per comprovarlo basta riportare l’inclusione che caratterizza gli ultimi capitoli: «In quel tempo quando non c’era re in Israele, un levita (...) si prese una concubina» (Gdc 19,1); «In quel tempo non c’era re in Israele, ognuno faceva quanto era bene ai suoi occhi» (Gdc 21,25; ultime parole del libro).
La tesi di fondo è che, quando manca l’autorità, irrompono disordine e sopraffazione; non è secondario sottolineare che il primo esempio di questa violenza ebbe come vittima una donna. Non è sufficiente che ci siano autorità costituite per scongiurare la prepotenza; tuttavia è anche evidente che la presenza o l’assenza di questo fattore giocano un proprio ruolo.
L’anonima concubina simboleggia l’umiliazione di ogni soggettività femminile; alla mancanza di nome corrisponde infatti la negazione della sua autonomia decisionale. Non le viene concesso di essere protagonista. Un levita che abita nelle estremità delle montagne di Efraim prende come concubina una donna di Betlemme e la porta con sé.
La donna, provando avversione nei suoi confronti, ritorna alla casa di suo padre. Il suo protagonismo è però ben presto relegato dietro le quinte. Dopo quattro mesi il levita va a riprendersela. Il padre di lei gli offre un’ospitalità eccessiva prolungatasi per più giorni cosicché l’uomo e la sua concubina ripartono a un’ora ormai non più propizia. Sono dunque costretti a pernottare a Gabàa nel territorio della tribù di Beniamino. Nessuno li accoglie, tranne un vecchio della montagna di Efraim che soggiornava come forestiero in quella città. Si ripropone la scena che fu degli abitanti di Sodoma nei confronti della famiglia di Lot (cf. Gen 19,1-29); questa volta però nessun angelo interviene per scongiurare la violenza.
L’intenzione dei beniaminiti era quella di «abusare» del levita; per scongiurare l’infausta eventualità il vecchio offre loro la propria figlia vergine e la concubina; alla fine però è solo quest’ultima a essere spinta fuori dalla casa per mano dello stesso levita. Il branco la violenta per tutta la notte. A questo punto l’autore, nella sua descrizione, introduce un’espressione degna d’assurgere a simbolo: «Il suo padrone si alzò alla mattina, aprì la porta della casa, ed ecco che la donna, la sua concubina, giaceva distesa all’ingresso della casa, con le mani sulla soglia» (Gdc 19,27).
Un’unica frase, apparentemente solo descrittiva, «con le mani sulla soglia», si eleva a simbolo di un muto grido d’aiuto diretto a chi dorme (in senso letterale o metaforico) mentre a pochi passi si sta consumando la violenza sulle donne.
La scena si fa ancora più atroce quando il levita, vedendo la sua concubina prostrata a terra, le rivolge un comando: «Alzati, dobbiamo partire» (19,28). Non ottiene risposta. Solo allora comprende che è morta; carica il corpo sul suo asino e torna a casa sua. Là giunto con un coltello, disseziona il cadavere membro a membro in dodici parti e lo invia alle tribù d’Israele.
La storia del levita e della sua concubina, direbbero i biblisti, è stata introdotta per fornire una spiegazione eziologica dello scontro che contrappose quella di Beniamino alle altre undici tribù d’Israele (cf. Gdc 20).
Tuttavia, in questo caso occorre non limitarci al perché sia stata scritta la vicenda. Essa deve essere assunta pure come un simbolo complessivo della strumentalizzazione, non di rado brutale, a cui, in tutti i sensi, è soggetto il corpo delle donne. Il corpo della concubina, in vita e in morte, testimonia alla lettera questa atroce eventualità.
Il tono cronachistico e la mancanza di esplicite parole di condanna da parte della Bibbia in realtà rafforzano l’efficacia del racconto e rilanciano il problema del perché non solo dove non ci sono autorità, ma anche là dove ormai da molti secoli dispiega le proprie tende una civiltà impregnata di matrici giudaico-cristiane, la violenza sulle donne e sul loro corpo sia lungi dall’essere tramontata. Rispetto a questo tema i crudi «come» contenuti nella Bibbia sono più incisivi degli estrinseci «perché» da essa esposti. Lo scontro tra le tribù d’Israele è vicenda antica, mentre la violenza sulle donne è una drammatica realtà attuale.
1 Considerazioni originali su questo tema si trovano in M. Setterholm, «Una santa delle prostitute: perché la Chiesa ne ha bisogno», in E. Lupieri (a cura di), Una sposa per Gesù. Maria Maddalena tra antichità e postmoderno, Carocci, Roma 2017, 269-299. Setterholm, master in Teologia alla Harvard Divinity School, è proprio una ex prostituta.
2 Riprendo in parte l’intervento svolto nel corso di «Contro la violenza di genere: si muovono le religioni? Si muovono gli uomini?», tavola rotonda interreligiosa promossa dal Segretariato attività ecumeniche, dall’Osservatorio interreligioso contro la violenza di genere e dalla Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII, Bologna, 2.5.2018. Cf. Regno-att. 12,2018,369.