Caino e Abele. Nella pietra e nel Corano
La vicenda di Caino e Abele è leggibile in vari modi. Vista sul piano etico rimane segno perenne che ogni omicidio rappresenta, nella sua radice, l’uccisione di un fratello; letta in chiave antropologica indica l’antica, inestinta contesa tra i diversi, conflittuali modi di spartirsi beni e risorse; colta in chiave simbolica attesta la fragilità inscritta nella condizione umana.
Percorrere il cosiddetto scalone dei morti della Sacra di San Michele non lascia indifferenti, al pari di tutto quanto caratterizza quell’abbazia che svetta sulla cima del monte Pirchiriano, all’imbocco della val di Susa. L’impressione non deriva dal nome lugubre collegato ad antichi sacelli, essa proviene dall’irta serie di larghi gradini incuneati nella roccia che conducono su, verso la porta dello zodiaco. Là, fissati nel lento deperire del marmo, sono raffigurati i segni che presiedono al più veloce transito dell’esistenza umana. Nel terzo decennio del XII secolo, maestro Nicholaus vi lasciò la sua firma in una selva di simboli, alcuni difficili da decifrare, altri meno complessi. Tra questi ultimi vi sono quelli che indicano vizi e peccati: ammonimenti consueti per chi medita sul trascorrere di un tempo allora comunemente ritenuto soggetto a un conclusivo giudizio divino.
Al grande scultore (o a qualche suo collaboratore) si deve anche un capitello dedicato all’archetipo della violenza interumana: il primordiale fratricidio compiuto dall’agricoltore nei confronti del pastore. La vicenda di Caino e Abele è leggibile in vari modi. Vista sul piano etico rimane segno perenne che ogni omicidio rappresenta, nella sua radice, l’uccisione di un fratello; letta in chiave antropologica indica l’antica, inestinta contesa tra i diversi, conflittuali modi di spartirsi beni e risorse; colta in chiave simbolica attesta la fragilità inscritta nella condizione umana (Abele da hevel, soffio, vacuità). Tuttavia il capitello esprime ancora qualcos’altro.
Caino è raffigurato mentre è in procinto di colpire con un nodoso, enorme randello il proprio inerme fratello. L’oggetto contundente sfiora il capo della vittima, tuttavia rimane un certo spazio vuoto tra il legno e il cranio: perché il colpo si abbatta occorre ancora una frazione di secondo. Nulla lascia supporre che l’azione si arresti e tuttavia il particolare serve ad accentuare il motivo della decisione, più che a porre in rilievo un esito irreparabile. La caratteristica ben si attaglia alla presenza di un altro soggetto che marca fortemente il capitello. Alla sinistra di chi guarda, subito dietro Caino, vi è un diavolo. Quanto colpisce in questa figura non sono le zampe caprine o altri tratti consueti dell’iconografia diabolica. L’occhio, infatti, è attratto da una prorompente, lunghissima lingua che giunge fino alle ginocchia.
La lingua del diavolo
Il diavolo linguacciuto è, in genere, inteso come simbolo della menzogna. Basterebbe fermarsi a questo primo rilievo per far nascere un problema: perché il mentire non rientra nei vizi capitali rappresentati nelle pareti che affiancano lo scalone? Forse l’atto di dire menzogne è un’abitudine meno grave che indulgere alla lussuria, alla gola, all’avarizia e via discorrendo? Questi interrogativi ci conducono però soltanto sulla soglia, senza lasciarci entrare nel cuore della questione. Per raggiungerlo, occorre passare attraverso due citazioni giovannee.
Il diavolo «era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44); «Poiché questo è il messaggio che avete udito da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino che era dal Maligno e così uccise suo fratello» (1Gv 3,11-12). A volte le citazioni parlano proprio quando vengono estrapolate dal loro contesto e fatte interagire tra loro come due fratelli, questa volta concordi.
Menzogna e omicidio sono, per tale via, intrecciati in maniera saldissima. Qui si comprende perché la menzogna, antitesi della verità, non sia riconducibile al fingere, al recitare, al dire bugie: essa è un inganno che tocca le viscere della condizione umana.
I due passi giovannei contengono entrambi un «in principio»: quello della menzogna e quello dell’amore vicendevole. In questa contrapposizione si svela il legame che unisce la negazione del vero con l’omicidio. La verità è una relazione, non un dato. È la fedeltà buona che si costituisce allorché ci si apre reciprocamente l’uno all’altro. L’omicidio è un abisso di menzogna perché nega la verità più intima della condizione umana: la reciprocità. L’assassinio è l’antitesi primordiale della «regola d’oro» che fa dell’uguaglianza tra sé e l’altro il fondamento primo di ogni comportamento veritiero.
Il diavolo linguacciuto è il simbolo di quanto in noi si contrappone alla verità dell’incontro. Esso rappresenta una centratura su di sé che trova, nell’ostilità verso l’altro, la norma soggettiva della propria condotta. La sfacciata esteriorità di quella lingua a penzoloni allude, in realtà, a qualcosa d’insito nel cuore umano che conosce l’avversione ed è chiamato a trattenerla fino all’ultimo istante, quando il randello della violenza è lì lì per abbattersi.
Se si guarda all’origine, si è obbligati ad affermare che l’umanità discende tutta o da Caino o da Set. Abele, la prima vittima della violenza dell’uomo sull’uomo non ha eredi, o piuttosto ne ha molti in una trafila inestinta che giunge fino a noi, ma sono vittime che si uguagliano a lui solo nella sorte, senza essere suoi discendenti. Il fatto che Abele non abbia figli suggella la sua condizione di vittima.
L’ermeneutica rabbinica non si lascia sfuggire il fatto che, nel versetto in cui si dichiara che il sangue di Abele grida dal suolo, in ebraico si usi la rara forma plurale di «sangui» (Gen 4,10). Perché la si impiega? La risposta è netta: oltre a versare il suo sangue, si è soppresso anche quello di tutta la sua potenziale discendenza.1
Nel capitolo quarto della Genesi, la parola «fratello» torna sette volte (cf. Gen 4,1-16), essa ricorre per affermare che Caino è fratello di Abele. Mentre non si dichiara mai che la vittima è fratello del suo assassino, si asserisce sempre che è l’uccisore a essere fratello di colui di cui ha estinto la vita. In questo modo, da un lato si sostiene che la fratellanza è luogo di responsabilità («domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello»; Gen 9,5), mentre dall’altro si afferma implicitamente che la vittima è tale anche perché chi lo sta uccidendo non lo riconosce come fratello.
Secondo la Genesi, Abele non parla mai; egli è l’archetipo di ogni vittima a cui è negata la parola. All’ucciso è lasciata come voce solo quella del sangue che grida dal suolo. Vi è solo il silenzio di una vita estinta.
La risposta della non violenza
Nella Genesi, la presa di coscienza da parte di Caino di quanto da lui compiuto è suscitata dalla voce del Signore che gli giunge da fuori: «“Che hai fatto?” (…) “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono”» (Gen 4,10.13).
L’episodio è riproposto anche nel Corano, ma in maniera diversa. Nel testo sacro dell’islam Abele (ma il suo nome non c’è, entrambi i protagonisti restano anonimi) parla e lo fa più del fratello. Lo scopo delle sue parole è di comunicare all’altro figlio di Adamo che non risponderà alla violenza con la violenza. Si tratta di un testo molto valorizzato da uno dei più autorevoli araldi musulmani contemporanei della non violenza, il siriano Jawdat Said.2
Nel Corano la vittima pronuncia parole che divengono impegno e promessa: «Se stenderai la mano contro di me per uccidermi io non stenderò la mano contro di te per ucciderti» (Corano 5,28). Tuttavia, alle spalle di questo atteggiamento inerme vi è la visione di un Dio capace di punire, ed è tema tutt’altro che secondario (anche se trascurato da Said) prendere atto che, per varie tradizioni religiose, la rinuncia all’esercizio della violenza da parte della creatura riposa sulla convinzione che l’unico autorizzato a esercitarla sia Dio: «Io voglio che tu ti accolli il mio peccato, e che tu sia tra quelli del fuoco, ecco la ricompensa dei colpevoli» (Corano 5,29).
Le parole del fratello furono vane, l’altro non le raccolse e la sua anima lo spinse a uccidere e «fu tra i perdenti». A renderlo consapevole della propria colpa non fu la parola, fu il muto linguaggio etologico di un corvo che, invece di presentarsi come spolpatore di cadaveri, diviene prototipo dell’atto umano di seppellire i morti: «Dio inviò un corvo che grattò la terra per mostrargli come nascondere la salma di suo fratello. Egli disse: “Povero me, sono stato incapace di essere come questo corvo e di nasconder la salma di mio fratello”, e divenne preda del rimorso» (Corano 5,31).3
1 Mishnah Sanhedrin, 4,5; Rashi su Gen 4,10.
2 Cf. J. Said, Vie islamiche alla nonviolenza, a cura di N. Dumairieh, prefazione di A. Mokrani, trad. dall’arabo e note di P. Pizzi, Edizioni Zikkaron, Marzabotto (BO) 2017.
3 La traduzione italiana dei passi coranici è di Ida Zilio-Grandi.