Asia - Myanmar: in attesa del papa
La nuova ondata di profughi di etnia rohingya, con la fuga di mezzo milione di persone in Bangladesh in poco più di un mese, ha evidenziato ancora una volta nel modo più drammatico una realtà troppo spesso ignorata. Ma a poco meno di due mesi dal viaggio che porterà papa Francesco in Myanmar e in Bangladesh (27.11-2.12.2017), anche la Chiesa cattolica ha fatto udire la propria voce nel condannare le violenze e auspicare sicurezza, giustizia e opportunità per i rohingya.
La nuova ondata di profughi di etnia rohingya, con la fuga di mezzo milione di persone in Bangladesh in poco più di un mese, ha evidenziato ancora una volta nel modo più drammatico una realtà troppo spesso ignorata (Regno-att. 22,2016,663).
Ancora una volta, appelli e condanne per arrivare a una soluzione definitiva per una etnia di forse un milione e mezzo di individui ormai costretta a vivere per i due terzi fuori dai confini birmani, sembrano incentivare aiuti e preoccupazione ma non a smuovere le autorità del Myanmar sulla richiesta del riconoscimento di cittadinanza per questa minoranza di fede musulmana considerata illegale nel paese e respinta altrove.a nuova ondata di profughi di etnia rohingya, con la fuga di mezzo milione di persone in Bangladesh in poco più di un mese, ha evidenziato ancora una volta nel modo più drammatico una realtà troppo spesso ignorata (Regno-att. 22,2016,663).
Dopo la crisi avviata il 25 agosto con una serie di attacchi di militanti di etnia rohingya nello Stato Rakhine, affacciato sul Golfo del Bengala e confinante con il musulmano Bangladesh, la reazione dell’esercito e della polizia birmani è stata ancora una volta indiscriminata.
I rastrellamenti sono stati accompagnati, come in precedenti crisi, da violenze di ogni genere che non hanno risparmiato neppure i bambini e che ancora una volta hanno evidenziato, insieme, la brutalità di chi si ritiene ancora pieno gestore del paese nonostante la fine della dittatura militare sei anni fa e il (debole) governo civile in cui ha un ruolo di primo piano Aung San Suu Kyi, Nobel per la pace del 1991.
A poco meno di due mesi dal viaggio che porterà papa Francesco in Myanmar e in Bangladesh (27.11-2.12.2017), anche la Chiesa cattolica ha fatto udire la propria voce nel condannare le violenze e auspicare sicurezza, giustizia e opportunità per i rohingya. Da segnalare la posizione del card. Charles Maung Bo, che pochi mesi fa aveva visitato la capitale del Rakhine, Sittwe, verificando di persona la difficile situazione dei rohingya e sottolineando la loro ridotta possibilità di movimento in un ambiente ostile, con la necessità di essere scortati dalla polizia persino al mercato.
Tuttavia, se la condanna per la persecuzione e la richiesta di un confronto serio sulle prospettive dei rohingya sono esplicite, il cardinale è ancora più chiaro su due altre questioni che dividono non solo il paese, ma anche la comunità internazionale: il riconoscimento legale dell’etnia e il ruolo di Aung San Suu Kyi.
Non nominare i rohingya
Non va ignorato che l’opposizione al riconoscimento di cittadinanza proviene soprattutto dalla maggioranza buddhista, aizzata da estremisti nazionalisti che ritengono, in buona fede o spesso pretestuosamente, che i musulmani in generale costituiscano un pericolo e che in particolare i rohingya siano facilmente infiltrabili dal terrorismo internazionale. Al punto che nel paese anche l’uso del termine «rohingya» è vietato e lo stesso governo usa il termine «bengali», che con accento dispregiativo allude a una loro origine esterna al paese.
Una diatriba terminologica che lo stesso card. Bo ha definito in una recente intervista al settimanale britannico The Tablet (14.9) «esplosiva», al punto che lo stesso esecutivo «non vuole usarlo per non creare ulteriori problemi o una sollevazione nel paese»: La questione è così sensibile che da tempo alla Santa Sede è stato consigliato di non chiamare i musulmani non-birmani del Rakhine rohingya.
Non una questione di poco conto dato che, ha confermato ancora mons. Bo nell’intervista, «i militari stanno solo aspettando che si verifichi una situazione di emergenza. La Costituzione, infatti, consente loro in una condizione eccezionale di caos e difficoltà, di riprendere il controllo del paese».
I rapporti diplomatici allacciati solo lo scorso maggio e il precedente (2015) riconoscimento della carica cardinalizia a mons. Bo hanno sicuramente rilanciato il ruolo della cattolicità birmana, che per lungo tempo sotto il regime militare aveva subito una tutela prossima alla persecuzione. Restano tuttavia limiti e rischi di cui anche i cattolici devono essere coscienti per non radicalizzare una situazione già difficile e di cui Aung San Su Kyi è insieme protagonista e vittima, come hanno dimostrano le diffuse critiche nei suoi confronti, l’accusa di non essere coerente con i propri principi e di non opporsi sufficientemente ai generali.
I 700.000 cattolici nel paese che ha 55 milioni di abitanti si trovano in condizioni non facili ma possono essere operatori di riconciliazione e a questo li chiama la Chiesa locale. A maggior ragione in vista della visita di papa Francesco, un evento su cui si va concentrando molta attenzione internazionale e forse troppe aspettative.
È giusto attendersi che il pontefice sia messaggero di pace, come sottolinea il card. Bo in un’altra intervista di fine settembre (28.9) all’agenzia UcaNews: «Il motto del papa è “amore e pace”: amore tra i gruppi etnici, tra i fedeli della maggioranza buddhista e di ogni altra religione; pace vuol dire la fine di una guerra civile durata decenni e che ancora prosegue nel Nord».
Tuttavia – specifica il porporato – «il problema [dei rohingya] non sarà risolto solo dai riferimenti del papa alla questione. E critiche ai militari e al governo potrebbero essere controproducenti». Se non vi sono dubbi sul fatto che Francesco farà riferimento alla crisi nel Rakhine e al conflitto nello Stato Kachin con modalità accettabili dalle autorità, dai militari e dai buddhisti, il cardinale avverte che «sarebbe fuorviante dire che la visita del papa riguardi solo i rohingya».
Stefano Vecchia