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Attualità
Attualità, 14/2017, 15/07/2017, pag. 444

Teatro e religioni: una lingua comune

Piero Stefani

Il teatro rappresenta una specie di modello del dialogo interreligioso. Anche quest’ultimo è fruttuoso soltanto se ci sono «personaggi» – né troppo diversi, né troppo simili – che parlano una lingua in grado di metterli in comunicazione. Non va bene Babele; ma non conduce molto lontano neppure cercare di superare il caos dell’incomprensione interreligiosa servendosi di un esperanto che induce gli interlocutori a ribadire, in fin dei conti, sempre gli stessi concetti.

 

Non esiste teatro là dove non ci sono dialoghi. Questa regola ha, come tutte, le proprie eccezioni: ci sono i monologhi, ci sono i mimi. Tuttavia, quando lo spettatore si siede in platea per lo più attende che gli attori dialoghino tra loro. I protagonisti devono parlarsi reciprocamente e per farlo occorre che l’uno comprenda la lingua dell’altro. Il teatro è costituito da dialoghi tra personaggi differenti che si scambiano battute. Nessuna commedia sarebbe attraente se fosse costituita da una serie di monologhi. L’incomunicabilità dei personaggi avrebbe come corrispettivo l’irritazione o, quanto meno, il tedio degli spettatori. Questo esito infausto può aver luogo o per eccesso di somiglianza allorché tutti dicono, in sostanza, le stesse cose, o per troppa discrepanza quando l’eterogeneità sfocia nella mancanza di comunicazione.

Il teatro rappresenta una specie di modello del dialogo interreligioso. Anche quest’ultimo è fruttuoso soltanto se ci sono «personaggi» – né troppo diversi, né troppo simili – che parlano una lingua in grado di metterli in comunicazione. Non va bene Babele; ma non conduce molto lontano neppure cercare di superare il caos dell’incomprensione interreligiosa servendosi di un esperanto che induce gli interlocutori a ribadire, in fin dei conti, sempre gli stessi concetti.

La comunicazione presuppone la capacità di parlare una lingua comprensibile agli uni e agli altri. Ciò può avvenire anche quando si usano idiomi diversi, a patto che ci sia chi li sappia tradurre. Ognuno è nelle condizioni di apprendere la lingua dell’altro, ma non tutti prendono l’iniziativa di imparare l’idioma altrui.

Quanto vale per le lingue intese in senso stretto attiene anche alla conoscenza dei vari universi religiosi. Per parlare con costrutto con l’altro devo già conoscere qualcosa del suo mondo e, nello stesso tempo, per apprendere le sue convinzioni ho bisogno di ascoltarlo. Per quanto non si sia di fronte a un vero e proprio circolo vizioso, tuttavia quello appena descritto non è neppure un procedere completamente piano.

Non è domanda peregrina chiedersi se l’ascolto sia un punto di partenza o la meta a cui tendere. In realtà, è un po’ l’una e un po’ l’altra cosa. Occorre ridimensionare la portata assoluta del principio in base al quale bisogna apprendere ad ascoltare l’altro così come egli si definisce a partire dalla propria esperienza religiosa. Nel momento in cui parlo con l’altro per presentare me stesso avvio, infatti, una trama che muta, in qualche misura, la situazione di partenza.

È di nuovo come a teatro, i dialoghi servono a far sviluppare un’azione scenica in cui i personaggi non restano staticamente identici a loro stessi. C’è sempre qualche sviluppo, qualche intreccio. Se tutto rimanesse immutato, lo spettacolo teatrale andrebbe incontro a un inesorabile fiasco. Nel dialogo le identità degli uni e degli altri vengono reciprocamente a ridefinirsi. Il grado del mutamento non è pero rigidamente prefissato.

 

Rappresentare una parte

Ci sono varie modalità per fare teatro. In alcuni casi si è di fronte a personaggi tutti di un pezzo, spesso essi divengono simboli di un vizio o, con maggiore difficoltà, di una virtù. Perché la resa sia efficace anche in questi casi il monolitismo non conduce lontano. Otello simboleggia la gelosia, ma Shakespeare è Shakespeare e perciò pure in quella tragedia l’azione è ricca di oscillazioni. Con tutto ciò, il personaggio resta legato alla sua funzione di raffigurare un determinato sentimento. Anche in questo caso è consentito avanzare un paragone con i dialoghi interreligiosi. C’è infatti una specie di teatro in cui operano i rappresentanti delle religioni. Qualche spirito malizioso potrebbe anche spingersi più in là e giungere a parlare di una specie di «compagnia di giro»; in effetti, qua e là per il mondo gli esponenti che parlano nei raduni interreligiosi sono, non di rado, su per giù sempre gli stessi. Se tutto si arrestasse a questa battuta polemica, non si andrebbe però lontano. C’è maggior frutto a scavare più a fondo nel paragone teatrale.

C’è un teatro dei rappresentanti delle religioni, ognuno dei quali, per così dire, personifica una virtù; essi si comprendono perché parlano la stessa lingua. Sulla scena, per definizione, si opera però in una situazione inventata. Il teatro è per sua natura una finzione. Esso raggiunge davvero il proprio scopo quando resta fedele alla costruzione di una realtà artificiale.

In questi casi finzione non vuol dire insincerità, significa solo che ognuno rappresenta una parte. L’attore quando recita è tanto più talentuoso quanto più si identifica con il suo personaggio, non con la sua persona. Più si cala nella parte, più è teatralmente vero. Ciò avviene anche per i rappresentanti delle religioni, quando negli incontri è chiesto loro di rappresentare le comunità d’appartenenza. Ognuno parla in quanto cattolico, ortodosso, protestante, ebreo, musulmano, buddhista e via discorrendo. Anch’essi si calano nella parte.

Le tavole rotonde in questi casi si trasformano, per logica interna, in palcoscenici in cui i relatori non sono fino in fondo loro stessi. Avviene così proprio perché essi sono chiamati dalle circostanze a rappresentare la propria comunità religiosa. Ognuno scambia le battute con gli altri lungo un copione in buona misura già noto. Le sorprese non sono all’ordine del giorno. Le virtù prevalgono sui vizi.

Tutte le religioni sono contro la violenza, tutte sono a favore della pace, l’amore del prossimo è un valore universale, l’impegno per il rispetto del creato è inscritto nel loro DNA. L’omogeneo prevale sull’eterogeneo. Non affiorano contrasti o litigi. Tutto bene; tuttavia, proprio come avviene negli spettacoli edificanti, si ha l’impressione di mordere poco la realtà. Fuori del teatro, per le strade e per le piazze la vita scorre come sempre.

Ci sono anche rappresentazioni teatrali improntate a un maggior realismo nelle quali ai personaggi non è chiesto di essere simboli di vizi o di virtù. Vi sono personaggi ambivalenti che si muovono su più registri, a volte persino contraddittori. Non partono da certezze granitiche e quando s’incontrano mutano in maniera sensibile atteggiamenti e comportamenti. Non di rado mettono in qualche modo in discussione le loro appartenenze di partenza. Come avvenne per Romeo e per Giulietta possono, per esempio, innamorarsi reciprocamente anche se appartengono a fazioni nemiche.

I legami personali prevalgono allora sulle rispettive origini. I protagonisti non sono rappresentanti dei loro contesti di provenienza. Questo tipo di incontri comporta sempre tensioni con gli ambienti circostanti, specie nel caso in cui essi esprimono casate, etnie, nazioni o religioni contrapposte. Oggi nella vita questi fenomeni capitano più di frequente che a teatro. Sono incontri che mettono in discussione molti confini, varie regole, parecchie certezze.

 

Vivere la propria fede

Cosa significano le appartenenze religiose (o non religiose) nell’esistenza di ciascuno, quando non si è rappresentanti che di sé stessi? L’interrogativo, come è facile comprendere, assume un peso particolarmente rilevante nel caso dei matrimoni misti; non è però il solo esempio. Per rendersene conto basta pensare ai rapporti intergenerazionali e a quello che passa (o non passa) tra genitori e figli, tra nonni e nipoti rispetto alle convinzioni (o non convinzioni) religiose.

Eppure in queste circostanze tra coniugi, tra le generazioni e più a vasto raggio tra persone che vivono le une accanto alle altre, che s’incontrano per motivi di lavoro, di studio e così via s’instaurano legami effettivi o affettivi che ridimensionano il ruolo da attribuire alle rispettive appartenenze religiose.

In questi frangenti i tanto auspicati ponti prendono il posto dei muri; tuttavia ciò non sempre appiana le tensioni tra le due sponde che il metaforico manufatto dovrebbe collegare. Le convinzioni religiose restano; esse sono presenti nel cuore di ciascuno, senza assurgere quasi mai al ruolo di linguaggio diretto. Qui non si opera nella finzione, ognuno è se stesso, ma proprio per questo egli non sa bene che ruolo relazionale affidare alla proprie convinzioni religiose profonde. Esse ci sono e operano, ma rimangono per lo più dietro le quinte. D’altra parte quel legame interpersonale non di rado suscita disagio o sospetto, per non dire ostilità, nelle comunità religiose d’origine.

Qual è allora il linguaggio comune? Il senso di umanità, l’affetto o l’innamoramento, il volersi bene, la solidarietà, il rispetto, la dignità, la sete di giustizia, l’impegno politico e sociale, la compassione, i bisogni reciproci, la gioia, la festa, la convivialità, l’umorismo.

Tutte queste modalità di comunicazione (assieme a varie altre) hanno voce in capitolo. I fattori ora indicati sono però soprattutto interpersonali; cosa dire per la sfera pubblica? Una conclusione da trarre è la seguente: per quest’ultima la libertà religiosa è un valore più alto di quello da attribuire alle singole appartenenze religiose. Molte religioni accettano la divisione delle sfere di competenza, in relazione alla dimensione pubblica accolgono perciò il primato della libertà di scelta; altre comunità fanno invece fatica a far propria questa visione.

Per tutti, relativizzare all’esterno quanto al proprio interno si tende a presentare come assoluto non è comunque mai un’operazione indolore.

Tipo Parole delle religioni
Tema Cultura e società Teologia
Area
Nazioni

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