Yemen: resistere al terrore
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Il patriarca d’Antiochia dei maroniti, card. Béchara Boutros Raï non le ha mandate a dire al primo ministro designato Saad Hariri: «Senza un governo che funzioni – ha ammonito – il paese morirà». Appena tornato dal Vaticano per la Giornata di preghiera per il Libano convocata da papa Francesco il 1° luglio nella quale erano stati invitati tutti i rappresentanti delle Chiese cristiane libanesi, tra le quali quella maronita gode di una posizione autorevole e politicamente influente, Raï ha incontrato il presidente Michel Aoun. E ha accusato senza mezzi termini tutta la classe politica, dal governo ad interim al presidente, d’avere violato la Costituzione, rovinato l’economia e di non aver agito di fronte alla disoccupazione che aumenta e alle imprese che chiudono.
Una giornata in cui questa sonnacchiosa cittadina agricola di provincia è diventata il centro della cristianità mondiale, con migliaia di persone e di famiglie riverse nelle strade in processione, le teste fluttuanti sotto un mare di candele e di icone, la banda del paese ad aprire il corteo, giovani suore e preti ululanti «Viva il papa», su pick up trasformati in juke box da migliaia di decibel.
Per mesi, in Yemen, del coronavirus ci si è fatti beffe. Da marzo circolavano on-line sui social media meme e video con immagini di uomini che vestivano bottiglie di plastica o imbuti di stagno a mo’ di mascherine, così per riderci su; le massaie si inviavano catene di messaggi su WhatsApp con il decotto dei miracoli da propinare notte e dì per allontanare il virus (limone, zenzero e cardamomo); predicatori dell’ultima ora indicavano il virus come «il soldato invisibile» che punirebbe gli infedeli nelle società opulente e che mai e poi mai avrebbe potuto toccare i musulmani nella sacra terra d’Arabia.
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