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Attualità
Attualità, 22/2016, 15/12/2016, pag. 663

Asia - Myanmar: rohingya in trappola

Stefano Vecchia

Tra le molte situazioni di tensione e persecuzione presenti in Asia a fine 2016, una ha un rilievo particolare e soprattutto una soluzione ancora lontana, nonostante la sua gravità e l’attenzione internazionale. Riguarda infatti quella che le Nazioni Unite hanno definito «l’etnia più perseguitata al mondo»: i rohingya. Un gruppo etnico di circa 1,2 milioni di persone, la cui identità viene disconosciuta dal governo in Myanmar e la cui esistenza è divisa tra una maggioranza che abita in condizioni assai difficili d’emarginazione lo Stato birmano occidentale di Rakhine, confinante con il Bangladesh, forse 200.000 profughi interni nel paese, altri 250-300.000 rifugiati in Bangladesh, dove da un quarto di secolo vivono in condizioni disperate in campi di sostanziale concentramento.

 

Tra le molte situazioni di tensione e persecuzione presenti in Asia a fine 2016, una ha un rilievo particolare e soprattutto una soluzione ancora lontana, nonostante la sua gravità e l’attenzione internazionale. Riguarda infatti quella che le Nazioni Unite hanno definito «l’etnia più perseguitata al mondo»: i rohingya. Un gruppo etnico di circa 1,2 milioni di persone, la cui identità viene disconosciuta dal governo in Myanmar e la cui esistenza è divisa tra una maggioranza che abita in condizioni assai difficili d’emarginazione lo Stato birmano occidentale di Rakhine, confinante con il Bangladesh, forse 200.000 profughi interni nel paese, altri 250-300.000 rifugiati in Bangladesh, dove da un quarto di secolo vivono in condizioni disperate in campi di sostanziale concentramento.

Una popolazione apolide che in queste condizioni è oggetto di abusi e negli ultimi anni è stata sfruttata dalle locali tratte d’esseri umani. I trafficanti  ne incentivano l’emigrazione per sottoporla a ricatti, abusi e alla cessione a profittatori locali in diversi paesi che li pongono in stato di schiavitù.

In Myanmar, i rohingya sono dei reietti: persecuzione e reclusione in campi, una cittadinanza negata ne regolano la vita; gli aiuti esterni – da tempo sospesi come la presenza di organizzazioni umanitarie nel Rakhine – sono sottoposti al pieno rispetto da parte delle organizzazioni internazionali di regole discriminatorie e all’estensione del sostegno anche alla popolazione locale non rohingya e non musulmana. La vicenda dei rohingya, infatti, si è negli ultimi tempi legata a una pressione sulla comunità musulmana locale (circa il 5% della popolazione, che è di 55 milioni), di cui condividono la fede.

Con la ritrovata democrazia e la fine formale del regime militare cinque anni fa, il nazionalismo buddhista ha trovato spazi e, soprattutto, un avversario immediato. Complice anche l’attenzione che tutta l’area del Sud-est asiatico e l’Asia meridionale pongono ora sulla minaccia di contagio terroristico da parte delle organizzazioni islamiche attive in Medio Oriente.

A confermare i timori di un’infiltrazione terroristica, gli attacchi coordinati del 9 ottobre scorso contro posti di polizia confinaria da parte di presunti militanti rohingya entrati dal Bangladesh e la morte di nove poliziotti birmani. Eventi che sono stati ragione o pretesto per la militarizzazione dello Stato di Rakhine e per una repressione indiscriminata che ha fatto decine di vittime.

Il 19 dicembre il destino dei rohingya è stato al centro di un incontro delle diplomazie regionali, perché è ormai chiaro che il «problema» dell’esistenza stessa di questa minoranza sta acquisendo valenze internazionali, anche a fronte dei 30.000 nuovi profughi fuggiti in Bangladesh da inizio ottobre e delle molte migliaia che potrebbero presto riprendere la rotta dei boat-people verso le musulmane Malaysia e Indonesia. Nazioni, queste ultime, che come il Myanmar fanno parte dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (ASEAN), un forum sinora non intervenuto per non mancare alla sua politica di non ingerenza negli affari interni di ciascun stato membro.

Il silenzio di San Suu Kyi

Le recenti proteste pubbliche davanti alle sedi diplomatiche birmane nelle maggiori capitali regionali hanno però manifestato che il “problema” rohingya non può più essere ignorato, pena fratture anche gravi nei rapporti interregionali.

Tuttavia, finora, la situazione sul terreno e la difficoltà del governo in carica, che ha nella Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi l’elemento più rappresentativo, hanno reso ancora più precaria la situazione dei rohingya, ai quali il governo locale disconosce non solo la nazionalità, considerandoli migranti illegali dal Bangladesh, ma nega pure la condizione di profugo e le tutele conseguenti.

L’Alto commissariato ONU per i rifugiati ha accusato l’esercito birmano di essere impegnato «in azioni di rappresaglia» e ha ricordato che le forze di sicurezza «hanno massacrato bambini, violentato donne, ucciso uomini, dato fuoco alle loro case» e costretto la popolazione alla fuga in Bangladesh, da dove potrebbero presto essere respinti. Abusi denunciati da più parti ma negati dalle autorità come «falsità».

Una situazione che in Myanmar ha posto in ulteriore difficoltà la leader della maggioranza governativa, ministro degli Esteri e consigliere nazionale Aung San Suu Kyi. Un silenzio assordante il suo, interrotto soltanto da timidi richiami al rispetto della legalità, all’interno del paese, e alla richiesta di comprensione per una difficile transizione, verso l’esterno.

La Premio Nobel è sembrata comunque accettare, per quanto riguarda le ultime fasi di una persecuzione che si è riaccesa nel giugno 2012, la tesi ufficiale di tensioni istigate da gruppi estremisti d’ideologia islamista, ma non ha apertamente condannato le violenze, limitandosi a chiedere «moderazione» ai generali per quanto riguarda azioni belliche e ricadute sui civili. Alimentando di conseguenza in ambito internazionale la percezione che il Myanmar stia perseguendo una politica di espulsione prima di essere costretto ad accettare un compromesso che accrediti i rohingya come cittadini a fianco delle altre decine di etnie del mosaico birmano.

Al momento, la loro resta una situazione che offre poche alternative allo sconfinamento o al tentativo di raggiungere via mare le musulmane Malaysia e Indonesia, che dopo l’esodo del 2015 hanno accettato di offrire ospitalità a migliaia di boat-people ma solo con organizzazione e finanziamenti internazionali. Occorre quindi una soluzione permanente in Myanmar, oppure un esodo totale di cui si prenda carico la comunità internazionale, a partire dalla solidarietà islamica.

«Per quanto possa essere difficile per il governo del Bangladesh accogliere un gran numero di profughi, credo che non ci sia alternativa, salvo la morte o ulteriori sofferenze», ha segnalato John McKissick, responsabile dell’ufficio dell’Alto commissariato ONU per i rifugiati in Bangladesh.

 S.V.

Tipo Articolo
Tema Vita internazionale
Area ASIA
Nazioni

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