All’aprirsi dell’ultimo decennio del secolo scorso, la Chiesa ortodossa russa si è presentata come una Chiesa da ricostruire; al chiudersi ormai del primo decennio essa si presenta, per così dire, come un grande cantiere. Tale indispensabile ricostruzione, di cui è stato grande artefice il defunto patriarca Alessio II, non ha coinvolto solo il tessuto giurisdizionale – a dire il vero, ancora in epoca «brezneviana», già sufficientemente ridisegnato quanto a numero di diocesi – e le strutture di formazione cristiana dei fedeli e di diffusione missionaria all’interno e all’estero e le istituzioni caritatevoli – tutte invece totalmente assenti –, ma anche i non certo meno necessari centri di elaborazione teologica e, in connessione con essa, di formazione del clero.
Non lasciano entrare forastiere alcuno nelle chiese loro, se non quelli che al modo loro si ribattezzano». Così scriveva nel 1565 Raffaello Barberini nella sua Relazione di Moscovia. Già al tempo di Ivan IV il Terribile la fede cristiana dei russi si presentava allo sguardo incuriosito del viaggiatore occidentale come una realtà impenetrabile: stringente è il
contrasto con le relazioni degli altrettanto curiosi, e più fortunati, nostri connazionali ospiti del Gran Turco, che, circa in quegli stessi anni, potevano descrivere, con interesse e stupore, le celebrazioni liturgiche – per loro inconsuete – che il patriarca di Costantinopoli, primate dell’ortodossia, presiedeva nella propria cattedrale.