Un criterio per orientarsi nella complessità : costruire
Come mai il vescovo di Roma si occupa di chi si muove «nel traffico con criterio e prudenza», di chi rispetta «i luoghi pubblici e segnala le cose che non vanno». Che cosa c’entrano queste attenzioni con la cura pastorale?
«Provo un senso di simpatia e gratitudine per tutte quelle persone che ogni giorno contribuiscono con piccoli ma preziosi gesti concreti al bene di Roma: cercano di compiere al meglio il loro dovere, si muovono nel traffico con criterio e prudenza, rispettano i luoghi pubblici e segnalano le cose che non vanno, stanno attenti alle persone anziane o in difficoltà, e così via».
Possono sorprendere le parole del pontefice pronunciate alla fine del 2017 come rendimento di grazie, parole che puntano l’attenzione dell’ascoltatore su questi «artigiani del bene comune»: a un primo ascolto ci si potrebbe chiedere come mai il vescovo di Roma si occupi di chi si muove «nel traffico con criterio e prudenza», di chi rispetta «i luoghi pubblici e segnala le cose che non vanno». Che cosa c’entrano queste attenzioni con la cura pastorale?
La risposta a tale interrogativo potrebbe offrire elementi significativi anche per affrontare due ulteriori questioni che toccano il modo di porsi della Chiesa oggi nel mondo. Una prima sfida riguarda come collocarsi e orientarsi oggi in un mondo segnato dalla complessità, intendendo con questo temine la pluralità di livelli, contesti, relazioni e fattori che segnano e si intrecciano in ogni situazione vitale.
Non c'è un unico criterio interpretativo del reale
Se per molti tale complessità ha il volto immediato del «quanto è complicato vivere oggi», andando più a fondo essa indica l’impossibilità di trovare una singola categoria concettuale che possa assurgere da unico criterio interpretativo del reale oggi. La domanda su come orientarsi in tale contesto complesso, com’è evidente, non riguarda solo i credenti, ma si allarga ad abbracciare ogni uomo e ogni donna del 2018, di fronte alle molteplici possibilità di risposta: a chi cerca ricette che semplifichino la sfida si affiancano coloro che rischiano di arroccarsi in posizioni difensive; chi si sente in dovere di attaccare idee differenti dalle proprie si ritrova non lontano da chi non ammette diritto di cittadinanza al confronto schietto; altri rileggono tutto a partire dalla contrapposizione tra due polarità (sempre in auge quelle tra conservatori e progressisti e tra dottrina e pastorale), mentre c’è chi è tentato di gettare la spugna e ritirarsi in un ambito protetto, apparentemente non segnato dalla complessità.
Esempi di quest’ultimo tentativo sono la cosiddetta famiglia borghese (con la porta chiusa, in cui si sta «finalmente bene», «lontano dai problemi della giornata»), oppure l’adesione a un gruppo marcatamente identitario (sportivo o partitico o «contro qualcuno»), come anche, in ambito ecclesiale, forme di comunità che potrebbero essere indicate, parafrasando la Lettera a Diogneto, «né del mondo né nel mondo».
«Che cosa dobbiamo smettere di fare?»
La seconda sfida che concerne il modo di porsi della Chiesa nel mondo di oggi è connessa proprio a quest’ultimo rischio evocato, ossia quello di ritirarsi in un ambito che non risenta degli appelli della cultura contemporanea: attività pastorali, concepite quasi separate dalla vita e dalle preoccupazioni ordinarie, rispondenti a logiche altre. Se è vero che tale effetto non può essere letto come l’esito di un progetto esplicito, non può essere nascosto, per lo meno, il rischio di utilizzare tale visione come difesa dalle provocazioni della vita di oggi.
Ne è un segnale la fatica e, a volte, l’affanno a trovare operatori pastorali per le proposte ordinarie delle parrocchie, con il rischio di cercare persone per tenere in piedi le attività anziché proporre attività per tenere in piedi le persone. Un altro segnale è riscontrabile nelle domande che a volte risuonano nelle assemblee o negli incontri di programmazione pastorale, a vari livelli, parrocchiale o diocesano: «dobbiamo semplificare, le forze stanno diminuendo» (intendendo: siamo meno preti), «il vescovo deve dirci cosa dobbiamo lasciar cadere, cosa non dobbiamo fare più». La legittima fatica degli operatori pastorali e, in primis, dei presbiteri impegnati nella cura pastorale di più parrocchie, viene riletta in riferimento alla quantità di attività e di impegni da svolgere e, quindi, la soluzione è intravista in una decisione superiore che semplifichi il carico di lavoro.
A entrambe le sfide le parole del pontefice della citata omelia tenuta durante i vespri del 31 dicembre scorso indicano una possibile via da percorrere: egli punta lo sguardo su ciò che costruisce, scegliendo chiaramente una prospettiva formativa. Il fatto di mettere a tema chi si occupa del decoro della città di Roma potrebbe apparire banale e forse, agli orecchi di alcuni, anche fuori luogo o per lo meno non sufficientemente alto. Potrebbe anche sembrar di cadere nel rischio già enunciato di voler semplificare la realtà.
Puntare su quello che costruisce
In questo caso lo sguardo del vescovo di Roma è invece uno sguardo che traccia un cammino possibile: anziché elencare i mali della città e dell’amministrazione comunale (come avviene nei dibattiti televisivi e negli scambi da bar), egli indica e fa emergere atteggiamenti costruttivi già in atto. Ponendo l’attenzione su chi ha a cuore il bene della città egli offre una vera e propria prospettiva pastorale: dà rilievo a scelte concrete che contribuiscono alla costruzione del bene comune. In questo modo non enuncia un modello da raggiungere, ossia non presenta la città come dovrebbe essere, opzione che rischierebbe ancora di separare realtà e ideale, semplificando la complessità di fattori che entrano in gioco.
Tali indicazioni, in cui emerge chiaramente come il papa non sia tanto preoccupato delle attività o delle strutture pastorali ma del bene delle persone, invitando in questo modo alla Chiesa a porsi prima di tutto a servizio del bene e della vita, sono pertanto una vera e propria proposta su come stare dentro la complessità: riconoscere e puntare su ciò che costruisce, investire in questa direzione le energie migliori. Queste indicazioni costituiscono anche nel contempo un modo di leggere la complessità: lo sguardo non è puntato su ciò «che non va» o sulla ricerca di ciò che «è da lasciar perdere», ma su quanto costruisce, genera vita e relazioni.
Tale sguardo, va detto, non corre il rischio di essere annoverato tra le possibili riduzioni e semplificazioni – dal momento che non è una chiave di lettura che cerca di fotografare in modo sintetico il reale senza coinvolgersi in esso –, ma è apertura di un cammino possibile.
Infatti, è chiamata in causa la libertà a un duplice livello: mentre viene evidenziato il contributo generativo di chi si prende cura della città, è fatto appello al coinvolgimento della Chiesa stessa. Facendo ricorso a un altro termine presente nel lessico bergogliano e che ha assunto visibilità durante il cammino sinodale sulla famiglia, si può parlare a questo riguardo di accompagnamento: mentre viene indicato un cammino (facendo appello alla libertà del cosiddetto destinatario), ci si mette a fianco per rendere tale cammino possibile (coinvolgendosi in prima persona nell’accompagnamento).
Mettersi in gioco
Lo sguardo formativo che ne emerge, allora, è in grado di stare di fronte anche alla possibile accusa di buonismo o di relativismo che qua e là si leva: indicando una strada (possibile) da percorrere, l’uditore è interpellato a mettersi in gioco, a riconoscere (per contrasto) vie non costruttive, a decidersi per l’una o per l’altra.
Nei discorsi del papa argentino sono reperibili numerosi altri esempi e segnali di questo approccio formativo. Tra tutti spicca quanto avvenuto durante il Giubileo della misericordia, allorché è stata conferita a tutti i preti la facoltà di assolvere dal peccato di aborto: dando pubblicamente ai presbiteri tale facoltà il pontefice ha posto l’attenzione al tema dell’aborto, secondo la prospettiva del cammino, senza per questo negare la gravità di tale scelta o alleggerire la responsabilità di chi la compie.
In altre parole, è riuscito a mettere a tema la serietà dell’interruzione volontaria della gravidanza senza «puntare il dito», ma offrendo una possibilità di cammino e di penitenza. «Tutti i preti possono assolvere dall’aborto» significa «l’aborto è un fatto grave, talmente serio che offro maggiori occasioni possibili per farvi i conti», ovvero «è possibile un cammino di riconciliazione, talmente pesante è quanto è stato vissuto».
Anche le intenzioni di preghiera della messa di Natale 2017 possono essere inserite dentro quanto indicato finora come sguardo formativo: pregare per lo Yemen segnato da una guerra dimenticata, per il Sud Sudan, per le minoranze in Myanmar e in Bangladesh è un modo per porre l’attenzione di chi sta partecipando alla messa verso situazioni a cui non ci si può disinteressare o considerarsi non collegati.
Oltre a non essere preghiere generiche, che avrebbero l’effetto di indicare un mondo ideale da raggiungere, esse interpellano chi ascolta a chiedersi, seppur lontano, cosa poter fare, come coinvolgersi. Similmente, le parole dell’Angelus del 1° gennaio indicano verso dove andare: «Ci conceda il Signore di operare in questo nuovo anno con generosità, per realizzare un mondo più solidale e accogliente». Pregando per essere costruttori di un mondo solidale e accogliente viene coinvolto chi prega a non essere solo spettatore e viene indicata una prospettiva generativa. Nel contempo, chi ascolta intuisce che un mondo fatto di interessi personali e di muri difensivi è una strada non costruttiva.
Ulteriori esempi potrebbero essere in primo luogo l’istituzione della Giornata mondiale dei poveri, in cui i credenti, oltre a operare contro le situazioni di sfruttamento e ingiustizia, sono chiamati a farsi carico di chi vive in situazione di povertà. In secondo luogo ne è testimonianza il contenuto dell’Angelus nel giorno della conclusione del Sinodo ordinario dei vescovi sulla famiglia, in cui il pontefice metteva in collegamento quanto discusso nell’assise sinodale con «immagini di profughi in marcia sulle strade dell’Europa.
Anche queste famiglie sofferenti, sradicate alle loro terre, sono state presenti con noi al Sinodo, nelle nostre preghiere e nei nostri lavori. Queste persone in cerca di dignità, queste famiglie in cerca di pace rimangono ancora con noi, la Chiesa non le abbandona, perché fanno parte del popolo che Dio vuole liberare dalla schiavitù e guidare alla libertà» (25.10.2015). Il collegamento del lavoro sinodale con le famiglie dei migranti ha permesso di porre l’attenzione sul tema dell’immigrazione con uno sguardo rivolto non solo ai problemi, ma anche soprattutto alle persone. Nel contempo ha offerto una possibilità di smarcare la riflessione sinodale sulla famiglia dal rischio di ridursi a questione «intraecclesiale» o di struttura ecclesiale.
Dove puntare le nostre energie migliori?
L’attestazione più evidente di tale prospettiva formativa è l’esortazione post-sinodale Amoris laetitia sull’amore nella famiglia. A un approccio che privilegiava l’indicazione dell’ideale da raggiungere, come affermato nel mea culpa del n. 36 («abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono»), si preferisce la prospettiva del «crescere nell’amore» (cf. ad esempio AL 53, 88, 120, 164).
Nel contempo risuona l’appello alla Chiesa ad accompagnare fidanzati, sposi, genitori in tale impegno a far crescere l’amore, fino ad «accompagnare pastoralmente i separati, i divorziati, gli abbandonati» (AL 242). In particolare, il discusso tema del discernimento per i divorziati in nuova unione s’inserisce nell’attenzione formativa: aprendo una possibilità di cammino (che nell’esortazione è ben lontana dall’essere un colpo di spugna sul passato e sul matrimonio sacramentale), si offrono una rilettura del passato e l’assunzione delle proprie responsabilità, dentro a un contesto di relazioni ecclesiali. Con tale possibilità di cammino e d’integrazione non vengono negate la specificità e la grandezza del sacramento del matrimonio, che anzi viene fatta risaltare. Offrendo una possibilità a chi «ha rotto» il matrimonio viene indicata anche la realtà (e la gravità) di tale rottura.
La prospettiva formativa, allora, pone lo sguardo sul cammino possibile di una persona, evitando il rischio di puntare su un astratto e impossibile ideale da raggiungere e superando la mera denuncia di una strada sbagliata da parte di chi non si sporca le mani: riesce a dire cosa è male indicando invece il bene possibile e realizzabile. In questo modo trova risposta la prima sfida enunciata, ossia come stare dentro a un mondo segnato dalla complessità: mettersi a fianco e far crescere, accompagnare.
Similmente, per quanto riguarda la seconda sfida richiamata, a partire dallo sguardo formativo di papa Francesco non si tratta allora di continuare a chiedersi e chiedere «cosa lasciar cadere?» (ossia quali attività non fare più) ma di puntare l’attenzione su ciò che costruisce. Dove voglio puntare le mie energie migliori di pastore, di comunità cristiana? Amoris laetitia indica chiaramente l’accompagnamento e l’integrazione di coppie, famiglie, persone ferite.
L’a. è docente di teologia presso l’ISSR Giovanni Paolo I del Veneto orientale e presidente del Centro della famiglia, istituto di cultura e pastorale della diocesi di Treviso.