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l'Ospite

Ortodossia, pace e non violenza

Il 17 maggio Lidiya Lozova, ricercatrice ucraina all’Università di Exeter, ha pubblicato sulla rivista Public Orthodoxy un intervento «Sulla non violenza, la difesa e la vittoria nel contesto dell’aggressione russa contro l’Ucraina». Ne proponiamo la traduzione italiana (con titolazione redazionale) nel quadro del dibattito su pace e pacifismo alla luce dell’aggressione russa in Ucraina.

Il 17 maggio Lidiya Lozova, ricercatrice ucraina all’Università di Exeter, ha pubblicato sulla rivista Public Orthodoxy un intervento «Sulla non violenza, la difesa e la vittoria nel contesto dell’aggressione russa contro l’Ucraina». Ne proponiamo la traduzione italiana (con titolazione redazionale) nel quadro del dibattito su pace e pacifismo alla luce dell’aggressione russa in Ucraina. Foto di Sunguk Kim su Unsplash.

 

Innanzitutto vorrei chiarire la mia posizione: sono ucraina e sono ortodossa, ho un’esperienza nel peacebuilding e ho collaborato alla traduzione del documento Per la vita del mondo. Verso un ethos sociale della Chiesa ortodossa in ucraino e in russo. Credo che questo documento sia una testimonianza profonda e stimolante del potenziale della Chiesa «post-bizantina» nel mondo di oggi.

Tuttavia da un anno a questa parte ho alcune domande riguardo alla sezione V, «Guerra, pace e violenza», alla luce dell’aggressione russa del mio paese. È una questione di non violenza, autodifesa e vittoria considerata a partire dal contesto ucraino.

La dottrina sociale ortodossa

Secondo Per la vita del mondo, «ogni atto di violenza contro un altro essere umano è, nella realtà, violenza contro un membro della propria famiglia, e l’uccisione di un altro essere umano, anche quando e dove diventa inevitabile, rappresenta l’uccisione del proprio fratello o della propria sorella» (n. 43); «Alla fine, possiamo giustamente dire che la violenza è il peccato per eccellenza» (ivi). L’ideale di sacrificio non violento dei santi principi di Kiev Boris e Gleb viene proclamato come «l’ideale di una condotta umana, stabilita da Cristo durante il suo ministero terreno» (n. 44).

Contemporaneamente la violenza di natura difensiva è caratterizzata come «la tragica necessità di individui, comunità o stati, di usare la forza per difendere sé stessi e gli altri da un’immediata minaccia di violenza». «L’autodifesa senza ingiuria può essere scusabile», sebbene qualsiasi opzione per i criteri della «guerra giusta» sia categoricamente negata in quanto contraria all’insegnamento ortodosso (n. 46).

Interpretando Gv 15,13 («Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici»), Per la vita del mondo ci ricorda che «quando si devono difendere gli innocenti contro il rapace, l’unica vera motivazione cristiana allo scopo è l’amore», ma dice anche che la croce di Cristo, a cui questo passaggio fa riferimento, era «luogo per eccellenza di abbandono alla violenza e del rifiuto della vendetta». Significativamente il documento sottolinea che tutte le parti in conflitto soffrono per la violenza, compresi «molti soldati, agenti di polizia e autori di violenza», e la Chiesa ortodossa «la Chiesa ortodossa non deve mai smettere di offrire una terapia spirituale» sia alle vittime sia agli autori della violenza, «offrendo cura a tutti coloro che sono ricettivi alla misericordia e alla grazia di Dio» (n. 47). La sezione si conclude con la lode degli operatori di pace di vario tipo.

Il concetto di pace giusta

Questa posizione sulla violenza è diversa da quella molto più aggressiva de I fondamenti della concezione sociale della Chiesa ortodossa russa (2000; Supplemento a Regno-doc. 1,2001), ma è in sintonia con la tradizione globale del peacebuilding, che si è sviluppata in Occidente dopo la seconda guerra mondiale e soprattutto dagli anni Settanta in poi. In breve, questa tradizione insiste sul fatto che per raggiungere un’esistenza pacifica dobbiamo pensare in termini di non violenza e di «pace giusta», anziché di violenza e di «guerra giusta».

I paradigmi del peacebuilding sono stati in gran parte sviluppati dagli appartenenti alle tradizionali «Chiese della pace», in particolare dai mennoniti, la cui etica si basa sulla non violenza radicale e sulla disponibilità a compiere un sacrificio estremo per un nemico (J.P. Lederach). Dagli anni Sessanta questi paradigmi sono diventati fondamentali anche per la Chiesa cattolica.

Nel mondo ortodosso moderno la teologia della pace è stata promossa per molti anni dalla Orthodox peace fellowship. Il recente libro Orthodox Christian perspectives on war (2017), alcuni dei cui autori hanno partecipato alla stesura di Per la vita del mondo, sebbene comprenda diverse prospettive è dominato dall’opzione per la non violenza, non distinguendo tra «omicidio» e «uccisione», e suggerisce una vicinanza tra la teologia ortodossa e l’ideale della pace giusta (nel contributo di Perry T. Hamalis).

Uscire dalla storia bizantina

Dall’inizio dell’aggressione russa su larga scala contro l’Ucraina sono stati fatti molti riferimenti alla necessità di pace e di non violenza da parte di voci del mondo ortodosso globale. Questi messaggi sono stati indirizzati principalmente alla Russia e alla Chiesa ortodossa russa, che benedice e sostiene la guerra.

Il panel su «Guerra e pace» della conferenza 2023 dell’Associazione teologica ortodossa internazionale ha trattato ampiamente questo tema. Nel suo intervento sull’irenologia il presidente dell’Orthodox peace fellowship, Nickolas Sooy, ha sottolineato la necessità di coltivare la cultura della non violenza e la teologia della pace nella Chiesa ortodossa, alludendo chiaramente all’attuale coinvolgimento russo. Nella sua recente conferenza sull’inno del VII secolo, «Soson, Kyrie, ton laon sou and the sacralization of violence in ecclesiastical texts», George Demacopoulos ha collegato, criticandola, la storica accettazione bizantina della violenza come benefica per l’impero cristiano con la retorica della Chiesa ortodossa russa. È evidente come oggi sia necessario dimostrare che la violenza non può essere giustificata dalla prospettiva ortodossa post-bizantina. E sono d’accordo.

Disagio e dolore

Tuttavia quando la stessa retorica quasi pacifista della non violenza e della pace, con pochissima attenzione alla questione della difesa, viene applicata alla realtà dell’Ucraina di oggi, a me (e a molti ucraini) suscita un qualche disagio e persino dolore, proprio come accade quando le persone pensano che gli ucraini non dovrebbero far fatica a trovare un linguaggio comune con i russi contrari alla guerra. L’intero paese da più di un anno sta pregando non solo per la pace, ma anche per le forze armate dell’Ucraina e per la loro vittoria. Quasi tutti hanno qualcuno arruolato. Da più di un anno, o meglio da quasi dieci anni, molte persone (parenti e amici di qualcuno) sono morte in prima linea e nelle città; anche i civili soffrono e muoiono. Ma la maggioranza degli ucraini non è disposta ad accettare l’occupazione e il genocidio, offerti come soluzione dai russi, e sceglie la resistenza militare.

Il valore della difesa

Caratteristica della percezione ucraina di Dio e della guerra è la recente predica del metropolita Epifanio (3 aprile). All’inizio, alludendo ai russi, dice che la guerra non può essere «santa» ed è una conseguenza di un grande peccato; pertanto non può essere sacra o santificata (cioè dedicata a Dio) in alcun modo. Nello spirito di Per la pace nel mondo continua: «È molto importante, in materia di guerra e di pace, chiamare le cose con il loro nome: l’odio è odio, l’ingiustizia è ingiustizia, l’omicidio è omicidio... E nessuna interpretazione politica, ideologica o di altro tipo può giustificare la perniciosa natura distruttiva della guerra, che è un peccato terribile e un crimine contro l’umanità». Tuttavia nella seconda parte, rivolgendosi agli ucraini, spiega a lungo perché la Chiesa benedice i soldati: «A differenza degli occupanti, i nostri soldati sono difensori. Non invadono le proprietà altrui, non vengono in un paese straniero con una spada, non commettono atti di aggressione, non feriscono deliberatamente gli altri, non sacrificano le vite altrui». Compiono un’impresa di autosacrificio, mettendo a rischio sé stessi per il bene degli altri, mostrando il più alto grado di amore (Gv 15,13). «Questa è la grande differenza tra coloro che “portano la spada” e coloro che si difendono con la spada. L’esercito e le armi non sono proibiti dalla Bibbia, ma secondo l’insegnamento cristiano esistono per difendere, non per attaccare. La Chiesa di Cristo è contro la violenza, ma sempre in difesa della verità, della pace e del prossimo». L’enfasi sull’autodifesa è molto più forte qui, e credo che in linea di principio sia condivisa dalla maggioranza degli ucraini ortodossi, indipendentemente dall’appartenenza ecclesiale all’una o all’altra giurisdizione.

Una guerra che cambia le coordinate

Presumo che la mancanza di un’interpretazione positiva dell’autodifesa in Per la vita del mondo possa essere spiegata da due ragioni: 1) il desiderio di evitare qualsiasi sacralizzazione/giustificazione «bizantina» o di «guerra giusta» della violenza e dell’esercito, e al tempo stesso di sottrarsi al pacifismo radicale; 2) il contesto culturale dei suoi autori e la mancanza (o l’assenza) della loro esperienza di essere attaccati in una guerra (da un’altra «nazione ortodossa» oltretutto).

Io capisco che il nostro rifiuto moderno, post-bizantino, ortodosso della sacralizzazione della violenza si spieghi teologicamente con il nostro desiderio di non coinvolgere Dio nel peccato «per eccellenza». Ma riteniamo che sarebbe improprio dire che le azioni chiaramente difensive possono avere non solo la «giustificazione» di Dio, ma anche la sua benedizione, anche in epoca post-bizantina? Riteniamo che sia «discutibile» oggi per l’Ucraina pregare non solo per la pace, ma anche per la vittoria, non una vittoria conquistatrice o trionfalistica, ma una vittoria che fermerebbe il genocidio russo, che non è mai menzionato in Per la vita del mondo come una possibilità? Senza negare in alcun modo la necessità di una guarigione per tutte le parti alla fine?

O ci si aspetta che gli ucraini preghino solo per la conversione miracolosa del nemico, mentre il nemico li terrorizza massicciamente senza motivo? La benedizione dei soldati e la preghiera per la vittoria in questo caso ci trascinerebbe davvero indietro a «Bisanzio», anche se l’Ucraina, a differenza della Russia, non ha ambizioni imperiali? O vogliamo semplicemente «lasciare tutto a Dio», al «mistero», senza coinvolgerci esageratamente in cose «troppo umane»?...

Sì, capisco che benedire l’esercito e pregare per la vittoria, considerando tutte le violenze in cui gli ortodossi sono stati coinvolti nella storia, in Occidente potrebbe creare tanto disagio quanto ne provoca il parlare di non violenza agli ucraini. Ovviamente potrebbe essere facile manipolare qualsiasi cosa; in fondo la Russia e la Chiesa ortodossa russa dicono di difendersi dal male dell’Occidente collettivo in Ucraina e spesso usano lo stesso passo di Giovanni 15,13 per giustificare la loro aggressione.

Oggi poi la violenza a volte ha luogo all’interno e intorno alle Chiese ortodosse nella stessa Ucraina, perpetrata da ucraini con diverse opinioni politiche ed ecclesiali.

Ma la domanda – posta a partire dal contesto della sofferente società ucraina – ugualmente rimane. Lo stesso linguaggio della non violenza non funziona bene per la Russia e l’Ucraina contemporaneamente, e questo problema deve essere affrontato in modo più significativo.

 

Lidiya Lozova

 

Lidiya Lozova è ricercatrice dell’Accademia britannica presso il Dipartimento di teologia e religione, Università di Exeter.

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