Nuove regole per le associazioni laicali
L’11 giugno il Dicastero vaticano per i laici ha emanato un decreto generale che introduce alcuni vincoli all’autonomia delle Associazioni internazionali dei fedeli laici. Il giurista Pierluigi Consorti lo ha commentato sul sito dell'Università di Pisa.
L’11 giugno 2021 il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita ha emanato un Decreto generale che introduce per legge (tale è la natura di questo «decreto generale») alcuni vincoli all’autonomia delle «Associazioni internazionali dei fedeli laici».
In primo luogo, si stabilisce un limite temporale di cinque anni alla durata dei mandati negli «organi centrali di governo a livello internazionale», rinnovabile di seguito una sola volta. I «moderatori» – espressione curiale per dire Presidenti – possono essere eletti anche se in precedenza hanno esercitato mandati ultraquinquennali nei medesimi organi, e anche tale carica resta soggetta al limite temporale di dieci anni, non immediatamente rinnovabile. Si tratta di una regola di portata universale e immediata, che impone entro i prossimi ventiquattro mesi una revisione degli Statuti che disponessero diversamente e l’avvio di nuove procedure elettorali nelle Associazioni che hanno un Presidente in carica da più di dieci anni. Il Decreto ammette una deroga a favore dei fondatori (e, si suppone, delle fondatrici, ma il linguaggio canonistico fatica ad ammettere la presenza naturale delle donne nel governo dei soggetti ecclesiali), in quanto se ne riconosce il ruolo carismatico, che tuttavia il Dicastero ritiene di dover subordinare al proprio apprezzamento, interponendo quindi una valutazione terza rispetto alla volontà dei membri dell’Associazione.
In secondo luogo, la legge esprime in chiave esortativa un diritto-dovere scontato, ossia che «tutti i membri pleno iure abbiano voce attiva, diretta o indiretta, nella costituzione delle istanze che eleggono l’organo centrale di governo a livello internazionale» (art. 3). Si tratta di un’affermazione sibillina, che lascia intendere l’esistenza di prassi contrarie, ovviamente di per sé contra legem. Sotto questo profilo, l’articolo appare inutile, come del resto quello che ricorda che «Le presenti disposizioni non riguardano gli incarichi di governo vincolati all’applicazione di norme proprie di associazioni clericali, di istituti di vita consacrata o di società di vita apostolica» (art. 6), per i quali il Dicastero emanante effettivamente non è competente.
Queste incertezze formali, se da un lato mettono in luce una perdurante preoccupante fragilità del legislatore canonico formale, da un altro lato fanno emergere un’ancora più preoccupante distanza del legislatore sostanziale dal corretto uso del diritto nella vita della Chiesa. E – ahimé! – in questo caso non parliamo solo del Dicastero in questione, ma anche del Papa, che – stante la formula conclusiva – ha approvato il Decreto in commento in forma specifica, attribuendogli così il massimo e incontrovertibile valore legale.
Sotto questo profilo non posso non rinviare alle osservazioni critiche espresse in più occasioni da un’attenta e sapiente canonista laica, da ultimo compendiate in un recente volume che andrebbe letto tutto d’un fiato. Qualche preoccupazione ulteriore emerge se si considera che questo Decreto arriva pochi giorni dopo l’annuncio della riforma del diritto penale canonico (sul quale ho già espresso un primo parere) e qualche giorno prima dell’annunciata riforma della curia (testo segreto, ma noto) che voci dicono pronta ad essere resa ufficialmente nota il prossimo 29 giugno. Io non conosco i retroscena, e perciò mi limito a fare qualche breve osservazione sulla base dei fatti e degli atti noti in via ufficiale per porre un tema istituzionale, sviluppandolo in modo affatto schematico, secondo il quale questo Decreto riproduce una dinamica istituzionalizzante per cui l’autorità ecclesiastica utilizza il diritto per conformare a un suo modello espressioni che pure riconosce essere carismatiche.
Il diritto può e deve regolare l’espressione sociale della vita ecclesiale, ma non può imporre regole che impongono ai fedeli modalità di vita diverse da quelle liberamente scelte. Ad esempio, un’Associazione può liberamente decidere di attribuire mandati settennali, o triennali secondo uno o un altro procedimento elettorale, e non si vede perché la frazione quinquennale debba essere preferibile rispetto ad altre. E più in generale, la legge che oggi impone una certa rotazione temporale delle cariche considerandola ex alto più appropriata per la stabilità dell’ente, costituisce un precedente pericoloso in quanto domani si potrebbe promulgare una nuova legge che subordini l’elezione ad altre e diverse regole imposte ai fedeli in funzione della stabilità – sempre ex alto valutata – con buona pace sia del sensus fidei del popolo sia del discernimento pastorale, che dovrebbe ricevere un’attenzione ex infimo (o bottom-up, se vi piace di più, ma ex infimo mi pare più evangelico).
Non si può infine trascurare il fatto che l’esigenza di ricambio generazionale e di rotazione delle cariche sia emersa – e regolata – solo nei confronti delle associazioni laicali e non nel quadro di un più generale riordino della materia associativa o delle funzioni di governo. E’ possibile che le Associazioni interessate siano state coinvolte nel processo normativo e lo abbiano accolto con favore. Tuttavia, dall’esterno, non si può mancare di segnalare un certo esercizio di clericalismo.
La lettura di questi ultimi documenti e degli avvenimenti connessi solleva una domanda preliminare che ricorda il refrain di una nota canzone di Lucio Battisti, si parva licet magnis componere, che cercava le ragioni per convincersi che “Non è Francesca”. Io non intendo assecondare le ipotesi giornalistiche che vedono il papa isolato e impegnato a difendersi da un nugolo di nemici interni: ma appare evidente che la sua azione di governo non sempre traduce in linguam canonisticam ciò che altrimenti insegna. Non intendo nemmeno cedere al linguaggio mediatico, che personalizza tali questioni semplificandole nei termini di continui «regolamenti di conti» fra gruppi che si contendono la ribalta ecclesiastica, dico più modestamente che se qualcosa non va si può intervenire, senza pretendere di obbligare paternalisticamente tutte le realtà associative laicali a seguire il modello prescelto dall’istituzione.
Nella Chiesa cattolica il fenomeno associativo esprime la libertà della pluralità delle forme di adesione al Vangelo (libertà che – sia detto fra noi – è scandaloso ritenere «esagerata» come si legge qui). La ricchezza carismatica non sopporta restrizioni legali e la comunione non si serve per legge e a colpi di decreti. Duemila anni di storia non possono passare invano. Per questa ragione il Codice attuale ha profondamente innovato la struttura del fenomeno associativo ecclesiale, che precede e non segue la costituzione gerarchica della Chiesa. Costituire associazioni è un diritto dei fedeli (can. 215) e l’autorità ecclesiastica conserva poteri di vigilanza nella misura stabilita dagli Statuti, che sotto questo profilo custodiscono l’autonomia conseguente al diritto di istituire associazioni.
Con il Codice attuale non tutte le associazioni ecclesiali sono pubbliche (com’era in precedenza) ma ne esistono anche di private, e solo le prime devono essere erette dall’autorità competente, che il Codice distingue su tre livelli territoriali: Santa Sede, «per le associazioni universali e internazionali»; Conferenze episcopali, per quelle destinate ad esercitare la loro attività in tutta una nazione; e Vescovo diocesano per quelle diocesane. Solo le associazioni pubbliche agiscono sotto la direzione dell’autorità che le ha riconosciute, che a sua volta è però limitata dal rispetto degli Statuti approvati all’atto dell’erezione. Insomma, l’autorità serve l’ente e non se ne può servire.
In linea di principio, le associazioni raccolgono tutti i fedeli, senza discriminazioni di status, ed esistono anche associazioni di laici. Queste ultime si sono molto irrobustite nel post-Concilio Vaticano II, assumendo forme variamente denominate: non solo associazioni, ma «gruppi, comunità movimenti», che l’istituzione ha nel tempo vagliato stabilendo alcuni «criteri di ecclesialità» (Christifideles laici, n. 30) che tenessero insieme carisma e istituzione. Negli anni Novanta la Chiesa cattolica ha avviato un processo di riconoscimento e accompagnamento di queste realtà aggregative, che in un certo senso costituiscono la perenne testimonianza della convivenza ecclesiale di più realtà, anche molto differenti fra loro, proprio perché costituiscono la concretizzazione della pluralità di espressione carismatica. Nel 2016 la Congregazione per la dottrina della fede ha offerto un ulteriore contributo istituzionalizzante, volto a promuovere «il rispetto del regimen ecclesiale fondamentale, favorendo l’inserimento fattivo dei doni carismatici nella vita della Chiesa universale e particolare, evitando che la realtà carismatica si concepisca parallelamente alla vita ecclesiale e non in un ordinato riferimento ai doni gerarchici» (Iuvenescit Ecclesia, n. 23).
Queste tentazioni istituzionalizzanti si concretizzano nel Decreto in commento, che impone una regola uniformante, che di per sé dovrebbe valere per le sole associazioni pubbliche universali e internazionali di laici. Tuttavia, l’art. 7 stabilisce che esso si applica pure «agli altri enti non riconosciuti né eretti come associazioni internazionali di fedeli, a cui è stata concessa personalità giuridica e che sono soggetti alla vigilanza diretta del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita»: vale a dire soggetti non meglio identificati, sorti extra codicem. Enti che peraltro non sono tenuti al rispetto dell’obbligo partecipativo ricordato nell’art. 3 del Decreto, che riproduce però un diritto-dovere universale. Da questo punto di vista, assistiamo ad un doppio avvitamento determinato dalla circostanza che propone l’esistenza di enti sottoposti a questo Dicastero diversi dalle Associazioni internazionali, i cui membri pleno iure possono anche non avere voce in capitolo. La presenza di questa precisazione non è del tutto chiara (anche se si può immaginare che si riferisca a soggetti diversi dalle Associazioni laicali eppure dipendenti dal Dicastero, che ha competenze anche su famiglia e vita).
L’invasione dell’autonomia statutaria appare soprattutto nella norma che abroga le Norme contrarie eventualmente previste negli Statuti già approvati. Una reazione così forte è stata determinata – si legge nel Decreto – da violazioni e abusi: va da sé che l’organo vigilante in questi casi deve intervenire per prevenirli e anche punirli, utilizzando però i rimedi ordinari in maniera puntuale, senza brandire l’arma legale imponendo regole generali che paradossalmente producono la lesione di diritti fondamentali. E’ bene sottolineare che di questo parliamo, e non di semplice organizzazione interna. L’individuazione delle modalità elettorali e dei termini di esecuzione del mandato di chi ricopre le cariche associative compete all’autonomia dei fedeli, esattamente come tocca questo aspetto l’individuazione delle regole che stabiliscono l’elettorato attivo e passivo e altri criteri di eleggibilità. Il Codice stabilisce un sufficiente quadro di limiti che gli Statuti devono recepire e l’autorità ecclesiastica deve vigilare sul loro rispetto, ma non ha il potere di modificare le regole generali incidendo sull’autonomia associativa. Non bisogna mai dimenticare che il diritto configura dei limiti all’esercizio del potere: si tratta di una lezione che la Chiesa tarda a recepire. Perciò sovente si comporta come fosse una societas iuridice perfecta, preoccupata più del corretto funzionamento dei suoi organismi che non della promozione della loro libertà evangelica.
Nella Nota esplicativa il Dicastero si dichiara «fiducioso che tale Decreto venga recepito nel giusto spirito di filiale obbedienza e di comunione ecclesiale» e auspica «che ne venga colta appieno la motivazione pastorale, nata dal desiderio della Chiesa-madre di far progredire questi suoi figli verso la piena maturità ecclesiale auspicata». Non sono fra coloro che antepongono il diritto alla pastorale, ma i pastori non dovrebbero anche ricordarsi dei diritti dei fedeli? Ha senso individuare la «piena maturità ecclesiale» nella definizione di un criterio temporale univoco e universale di avvicendamento delle cariche? Capirei la sottolineatura dell’assoluta importanza dell’elezione delle cariche, questione centrale che tocca la natura democratica della Chiesa-madre, che sappiamo essere osservata solo quando si tratta di scegliere il Vescovo di Roma. Il deficit di democrazia ecclesiastica in genere si giustifica con la forza compensativa dello Spirito Santo: in questo caso avviene l’inverso.
Il Dicastero oggi rivolge la sua legge uniformante alle Associazioni (sottinteso, pubbliche) internazionali di fedeli (sottinteso, laicali). Lo fa forte di una praxis Curiæ che dimostra una volta di più come l’istituzione costituisca una perenne tentazione ecclesiastica uniformante. La comunicazione del Vangelo richiede creatività e obbedienza carismatica: aspetti che l’istituzione sembra tuttora subordinare all’obbedienza gerarchica. Credo che lo Spirito Santo non si fermerà davanti a limiti temporali posti dalla legge ecclesiastica, ma temo che la legge ecclesiastica abbia perso un’occasione per promuovere i diritti dei fedeli. Una legge incapace di promuovere i diritti perde la sua funzione salvifica. Una Chiesa che imbriglia la libertà dello Spirito può perdere se stessa.