Marcello Neri
L’esito del referendum irlandese sull’equiparazione giuridica delle coppie omosessuali può essere anche visto come il punto di partenza per una normalizzazione dei rapporti fra Stato e Chiesa nel paese.
Come ha notato il gesuita O. Rafferty sul New York Times, “l’influenza del cattolicesimo istituzionale irlandese nella sfera pubblica è giunta virtualmente alla sua fine (…). Oggi il cattolicesimo non è più necessario per giocare il ruolo di un nazionalismo in forma di preghiera”.
Il solco si era aperto già da tempo, mancava solo l’occasione per renderlo evidente e costringere la Chiesa irlandese a ripensare il suo modo di porsi non solo rispetto alla vita del paese, ma soprattutto verso le generazioni più giovani. Un sapere ampiamente diffuso nell’esperienza pastorale quotidiana, celato sotto la fragile sopravvivenza di istituzioni sociali e politiche, è divenuto consapevolezza amara con cui anche la gerarchia, che si era già frammentata nei mesi di approccio al referendum, oramai non può più evitare di confrontarsi.
L’arcivescovo di Dublino, mons. Diarmuid Martin, ha parlato di un necessario “bagno di realtà” per la Chiesa cattolica irlandese: “Dobbiamo fermarci e fare un esercizio di realismo, evitando atteggiamenti di diniego della realtà delle cose”. Sembra articolarsi la consapevolezza che l’esito del voto rifletta in larga parte la prospettiva delle generazioni più giovani, che comunque – nella stragrande maggioranza – hanno alle spalle più di un decennio di scolarizzazione in ambito confessionale cattolico.
Ne emerge il fatto che frequentare i luoghi istituiti del cattolicesimo non implica più una configurazione cattolica della coscienza individuale: quei luoghi rimangono immensi contenitori in cui si transita, senza che essi abbiano la forza di istruire una relazione persuasiva e reciprocamente critica con la generazione dei giovani. In questo senso, oggi la Chiesa irlandese paga lo scotto di una cecità lungamente coltivata all’interno di un sistema chiuso e auto-referenziale – incapace di accorgersi della realtà delle cose.
È stata quindi la realtà stessa a provvedere l’informazione necessaria, lungamente rimossa dalla consapevolezza della gerarchia della Chiesa – come ha annotato lo stesso Martin: “È in corso una rivoluzione sociale; e, forse, nel personale ecclesiastico non vi è stata una comprensione debitamente lucida delle implicazioni”.
Ora il governo irlandese si trova davanti al compito di modificare la Costituzione seguendo il dettato del referendum; ossia che “il matrimonio tra due persone possa essere ratificato a prescindere dal loro sesso”. Bisognerà vedere come reagirà la Chiesa locale alla nuova legislazione. Nella fase previa al referendum, infatti, il primate di Irlanda, l’arcivescovo di Armagh Eamon Martin, aveva affermato che “la gerarchia potrebbe addirittura riconsiderare la sua posizione sul fatto se i preti continueranno a solennizzare l’aspetto civile di un matrimonio nel caso il voto passasse”.
Rafferty individua nell’esito del referendum una chance per la Chiesa irlandese: “Se non può più rappresentare la cultura diffusa in Irlanda, il cattolicesimo irlandese ne potrebbe forse emergere in una forma più attenta alla cura e meno manifestamente dogmatica e oppressiva del panorama irlandese. Il suo fuoco dovrebbe concentrarsi su un ministero che si preoccupi dei bisogni effettivi delle persone, e non sul mantenimento del potere nella società irlandese. Se la Chiesa impara la lezione impartita dall’aver perso il referendum sul matrimonio omosessuale, questa disfatta potrebbe non rappresentare la sua Waterloo”. Riamane da vedere quali saranno i criteri e le preoccupazioni che guideranno il cattolicesimo in questo necessario bagno di realtà. E magari questo potrà tornare anche a favore della Chiesa tutta. Appunto, magari.