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l'Ospite

Marcello Neri

L’ambito tedesco sembra essere in subbuglio davanti a Francesco: dallo strutturare teologicamente il papato del card. Müller, al difetto di teologia di Spaemann, passando attraverso tutta una pletora attendista di “sì, però…” proveniente proprio da coloro che dovrebbero trovarsi a loro agio nell’ariosità rimessa in circolo da un paio d’anni a questa parte nella Chiesa cattolica.

Facciamo finta, per un momento, che proprio di questo si tratti – ossia della teologia e della forma della Chiesa. Cosa della quale si può aver ben più di un lecito dubbio. La teologia, come disciplina accademica e sapere critico della fede, come articolazione culturale del cristianesimo nell’ora presente, non la può fare né un papa né un dicastero romano; non fosse altro che per il semplice motivo che fare teologia richiede tempo dedicato allo studio, alla ricerca, al dibattito e al confronto. Essere teologo/a non è un carattere impresso indelebilmente nella persona, ma una pratica dell’intelletto che requisisce quasi completamente il vissuto di una persona – se la si fa seriamente e per essere all’altezza delle sfide dell’ora presente. Insomma, le osservazioni di Müller e Spaemann dicono molto di più su un certo modo di intendere la teologia, che sul papato di Francesco; senza contribuire poi più di tanto neanche a quello a cui dicono di aspirare.

Per riferimento a Francesco riemerge qui semplicemente un annoso fraintendimento del sapere critico della fede: ossia che la Scrittura sarebbe, in fin dei conti, priva di una sua sistematica interna e di un ordine teologico coerente; e che compito della dogmatica sarebbe esattamente quello di sopperire una volta per tutte a questo difetto insopportabile della figura normativa della fede.

Che questo fraintendimento riapparisse ora, in forma colta e articolata, davanti al ministero di Francesco non dovrebbe affatto sorprendere: stante la sua convinta restituzione dell’attuazione storica della Chiesa alle pagine dell’Evangelo di Gesù. Niente di nuovo, quindi; e niente che dovrebbe meravigliare più di tanto.

Ma non è solo nelle posizioni di Müller e Spaemann che abbiamo il riflusso di questo lungo malinteso; anche nei continui distinguo del ceto convintamente conciliare dei teologi e delle teologhe si riduplica, in un qualche modo, un fraintendimento dal quale facciamo fatica tutti a liberarci. Ossia, che il cattolicesimo coincida perfettamente con l’europeismo. In questo campo, la riserva espressa davanti all’attuale pontificato, che lascia il giudizio in sospeso fino a quando non si metterà mano alle strutture della Chiesa, mostra tutto il suo eurocentrismo – e, quindi, anche la sua arretratezza rispetto al contemporaneo. La partita si è dislocata altrove, ma noi continuiamo a giocarla sul campo di casa; senza accorgerci che, in tal modo, ci manca anche l’avversario da sfidare.

Nonostante tutti gli ammonimenti, il cattolicesimo continua a inscenare una specie di amichevole fra i titolari e le riserve della medesima formazione. Paradossalmente esso trova il suo punto di massima plasticità nel vertice della sua organizzazione, perché è quello che esso ha volutamente sottratto a ogni forma di controllo (salvo poi volere tentare di addomesticarlo con argomenti più o meno dotti). Qui è tutto il corpo della Chiesa che deve imparare a reinventare le sue movenze a partire dallo spazio che le viene concesso dall’alto – sapendo che, almeno per questa volta, anch’esso si rimette esplicitamente sotto la misura della parola di Dio. Questo spazio non può essere tradotto in nessuna rassicurante struttura, ma ciò non vuol certo dire che non abbia forma; ed è esattamente a lavorare intorno a essa che tutti si dovrebbero sentire urgentemente convocati.

Riformare l’istituzione e le sue strutture come semplice alchimia di testi, per quanto essi possano essere autorevoli e normativi, non aiuta a ritessere il legame fra il cattolicesimo e il reale – legame per il quale Dio ha speso l’autorevolezza più esplicita del suo stesso nome, fino a farlo coincidere indelebilmente con esso.

Ho l’impressione, nonostante tutte le accuse di confusione mosse nei suoi confronti, che Francesco abbia ben chiaro in mente quale sia la posta in gioco: la realtà e il mondo, e con essi il Vangelo del Dio incarnato, si sono spostati altrove e hanno riconfigurato il loro modo di abitare la storia degli uomini e delle donne. Per questo egli non si stanca mai di dirottare il nostro sguardo, oramai assuefatto alla mera auto contemplazione di sé come soddisfazione ultima della propria visione. Esercizio assolutamente necessario per arrivare un giorno, ma tempo non ne è rimasto poi molto, per andare a collocarci noi stessi in quella realtà del vivere da sempre abitata dal Dio di Gesù.

Solo dopo questa transizione si potrà scoprire quale istituzione potrà maggiormente approssimarsi a questa forma reale del suo essere – che è poi il compito affidato da Dio alla comunità dei discepoli e delle discepole del Signore, da sempre.

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